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IRENE RUGGIERO Dipendenza sana, dipendenza patologica.

 

Il concetto di dipendenza spazia  dalla dipendenza sana che favorisce la crescita alla dipendenza patologica, che la ostacola.

La dipendenza sana, fondamento e matrice dell’identità, si costruisce  a partire dai primissimi scambi corporeo-affettivi tra madre e bambino. La prematurità dell’infante costituisce un dato biologico imprescindibile per comprenderne lo sviluppo: la sua inermità e impotenza lo costringono ad una prolungata dipendenza dalle persone che lo accudiscono – in primo luogo la madre – garanti della sua sopravvivenza fisica e psichica. Questa protratta dipendenza dall’oggetto di amore costituisce una condizione imprescindibile per lo sviluppo della capacità adulta di dipendere da se stesso, di autoregolarsi e di nutrirsi di sé, caratteristiche di un Sé integrato, capace di tollerare l’ambivalenza, inevitabile ingrediente di qualsiasi relazione affettiva significativa. Solo chi ha superato gli scogli dei conflitti di dipendenza e ha sviluppato un senso di sé integrato e coeso è capace di dipendere in modo sano dai propri oggetti d’amore, sentendosene arricchito più che minacciato. Paradossalmente, il contrario della dipendenza non è l’indipendenza, bensì la dipendenza matura.

Le concezioni psicoanalitiche che radicano la nascita e lo sviluppo della mente in un ambito relazionale fin dalla nascita (nelle quali mi riconosco)  valorizzano l’importanza dell’ambiente nella strutturazione del Sé e nei suoi fallimenti e sottolineano il ruolo patogeno delle carenze, degli eccessi e dell’incoerenza dell’oggetto nel determinare la qualità della relazione di dipendenza che il bambino sviluppa nei confronti degli oggetti primari e quindi nell’evoluzione del suo narcisismo primitivo, base della futura integrazione del suo Sé.

La mente umana non si sviluppa infatti solo attraverso un processo maturativo interno ma anche a partire dall’esterno, dalla mente di coloro che si prendono cura dell’infante, in primo luogo la madre. La  capacità di pensare si sviluppa e si espande all’interno di una relazione affettiva, nell’incontro tra la sensorialità grezza del bambino (impressioni sensoriali ancora prive di qualità psichiche) e la capacità di reverie (Bion) della madre, che -accogliendo questi aspetti confusi e dunque angosciosi e dando loro un primo senso attraverso una funzione organizzante – opera un progressivo processo di bonifica (Fornari, ) e  di alfabetizzazione (Ferro, 2008)  delle prime proto-sensazioni e proto-emozioni del bambino, avviandole verso la mentalizzazione.

La capacità di rispecchiamento della madre gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di un sano investimento narcisistico del Sé, fondamento della sua coesione. E’ infatti attraverso l’esperienza ripetuta di sentirsi pensato e contenuto nella mente della madre come un oggetto pensante che il bambino può strutturare uno spazio interno in cui siamo contenuti e rappresentati emozioni, fantasie corporee, angosce e pensieri. Senza il contenimento e il rispecchiamento materno, non si struttura nel bambino quello spazio interno, intermedio tra realtà e sogno, che consente il fondamentale passaggio che, attraverso la reverie, porta dal sensoriale all’emotivo e dal concreto al simbolico, ponendo le basi per uno sviluppo adeguato del Sé e del senso di sé. Anche in seguito, nelle successive fasi maturative, il rispecchiamento degli “oggetti-sé” (Kohut) costituirà un fondamentale supporto dell’investimento narcisistico del Sé. 

          Se la madre, invece di rispecchiare il lattante e riflettergli se stesso, gli mostra un proprio stato d’animo, la propria angoscia o le proprie difese da essa, il lattante guarda ma invece di veder stesso, percepisce la madre: con le parole di Winnicott,  “la percezione prende allora il posto di ciò che avrebbe potuto essere uno scambio significativo con il mondo..” e “il lattante non guarderà se non per percepire, come una difesa”.  Invece che libertà di sognare e di scoprire, fiducia, curiosità e apertura verso il mondo, si struttureranno apprensione e bisogno di sviluppare capacità percettive che consentano di predire l’umore dell’oggetto e, ben presto, di influenzarlo e controllarlo.

 Sono il padrone della mia anima, dice Nelson Mandela nel film Invictus. Per diventare indipendenti, capaci di fidarsi di sé e dei propri modelli introiettati interni (prima di tutto i genitori, e poi i successivi oggetti affettivamente significativi) occorre aver avuto una madre capace da una parte di accettare senza spaventarsi troppo la dipendenza reciproca tra lei e il neonato, dall’altra di riconoscere la realtà del suo bambino, discriminandola dalle proprie fantasie onnipotenti, dal proprio bambino immaginario interno. Una madre non troppo narcisista, dunque, capace di riconoscere e tollerare una certa quota di alterità senza angosce  e difese eccessive.

Nella declinazione sana o patologica della dipendenza del bambino dai suoi oggetti giocano dunque un ruolo essenziale il contesto, familiare, ambientale e generazionale. Vi si incarna, fin dall’inizio, una storia che ha origini remote e che è intrisa delle modalità relazionali del padre, della famiglia e del gruppo sociale più allargato. La cultura condivisa dal nucleo familiare anima fantasmi che preesistono alla nascita dell’infante e che rimangono operanti per tutta la sua vita:  nelle situazioni più felici, essi radicano il neonato in una storia generazionale e ne cementano l’appartenenza al gruppo familiare, mentre in quelle più patologiche costituiscono la base di mandati transgenerazionali, di identificazioni alienanti e di vincoli depersonalizzanti. La funzione del padre si rivela anch’essa cruciale sia nel proteggere la necessaria fusione tra la madre e il bambino che nel preservarli dal rischio che la fusione collassi nella confusione e nell’indifferenziazione. Se egli è presente nella realtà e nella mente della madre come Altro e nello stesso tempo come partner affidabile di una relazione personale e genitoriale significativa, garantisce con la sua stessa esistenza una qualche tridimensionalità e separatezza che fa si che la madre sia anche un po’ altro e altrove. Questo è fondamentale, in quanto non si può concepire una dipendenza sana senza una qualche separatezza,  che dovrebbe essere presente nella madre fin dall’inizio.

Il concetto di dipendenza appare così fin dall’inizio dialetticamente connesso con quello di narcisismo, in quanto imprescindibilmente connesso con il delicato passaggio che conduce l’infante a riconoscere l’esistenza e l’alterità dell’oggetto e, dunque, nei possibili fallimenti di questo processo, con quello di trauma. Quando le cose vanno bene, questo complesso processo esita nella distinzione di una sana capacità introiettiva, che rappresenta il fondamento della costituzione di un mondo interno sufficientemente stabile e coeso. Viceversa, i fallimenti di questo processo di sviluppo determinano quel senso di vuoto che costringe le persone più fragili a ricorrere alla dipendenza concreta da un oggetto esterno, proprio perché non si è costituito nel mondo interno un oggetto stabile da cui potere dipendere sanamente e da cui trarre fiducia in se stessi.

Infatti, perché un bambino possa svilupparsi in modo personale e creativo, è necessario che ci sia una madre capace di investimento, passione e di una sana curiosità (fondata su una certa separatezza);  tutti affetti che testimoniano la dipendenza della madre dalla realtà del bambino e che, se  non sono sufficientemente presenti,  generano “aree di orfanità” (Busato Barbaglio, 2008).  

Qualora questo supporto manchi o sia troppo carente, gli oggetti esterni concreti diventano imprescindibili come sostituti di ciò che non si è potuto formare adeguatamente all’interno: di conseguenza, diventa necessario iper-investire il mondo percettivo per poter mantenere, attraverso la sensorialità, quel collegamento con la realtà e quella consistenza che non può fondarsi su oggetti interni sufficientemente stabili. Si creano così dipendenze coercitive che ostacolano l’evoluzione del narcisismo primitivo e il riconoscimento dell’alterità dell’oggetto, sentita come troppo minacciosa per un sé che ha bisogno di ancorarsi ad un oggetto totalmente controllabile che svolga funzioni protesiche.

Un’altra funzione materna che gioca un ruolo fondamentale nell’evoluzione dalla dipendenza all’autonomia è quella para-eccitatoria, con cui la madre preserva da un eccesso di stimolazione il nascente spazio interno del suo bambino, svolgendo quelle funzioni di autoregolazione che saranno successivamente svolte dall’apparato psichico che prenderà, col tempo,  il posto dei genitori, costituendosi come un filtro essenziale  tra l’individuo e le fonti di eccitazione interne ed esterne. Il suo adeguato sviluppo consente all’individuo di gestire internamente il conflitto, di tollerare situazioni di tensione anche elevata senza essere costretto ad evacuarla attraverso l’agito o a ricorrere coattivamente ad un oggetto esterno per  eliminarla.

Lo snodo adolescenziale.

  Data la stretta relazione che sussiste tra narcisismo e dipendenza patologica, non ci meraviglieremo di trovare situazioni traumatiche e difetti relazionali e di sviluppo tra gli ingredienti basilari della patologia del vuoto e delle conseguenti dipendenze patologiche che in genere si sviluppano a partire dall’adolescenza.

Le relazioni primarie, le angosce che le attraversano e le difese mobilitate per affrontarle influenzano infatti profondamente la dotazione narcisistica di base e, con essa, il bagaglio con cui una persona giunge al crocevia edipico e all’adolescenza, fase di transizione cruciale per un saldo approdo nella maturità affettiva. È dunque inevitabile che le carenze nella coesione e nella strutturazione del Sé interferiscano nel processo adolescenziale, compromettendone la funzione evolutiva (Laufer, 1984).

Infatti, il processo adolescenziale cimenta tanto più profondamente le basi narcisistiche quanto più labili sono le rappresentazioni di sé e dell’oggetto edificate durante la latenza (Novelletto, 1986), accentuando negli adolescenti narcisisticamente più fragili sia la dipendenza dall’oggetto che l’impossibilità di tollerarla: infatti, quanto più le basi narcisistiche sono fragili (quanto meno l’equilibrio narcisistico è garantito da mezzi interni), tanto maggiore sarà la fame di oggetti esterni per rassicurarsi e completarsi (Jeammet, 1992); tuttavia, maggiore è il bisogno di dipendere da un oggetto esterno,  più intollerabile risulta la dipendenza, avvertita come minaccia per un’identità fragile e poco coesa.

In adolescenza, i nodi irrisolti dell’infanzia vengono al pettine e ostacolano l’elaborazione dei fisiologici conflitti di dipendenza adolescenziali, ponendo le basi per la formazione di dipendenze patologiche negli adolescenti sprovvisti di oggetti interni stabili che li aiutino a modulare le angosce connesse alla separazione adolescenziale. Gli adolescenti troppo fragili per affrontare le angosce di annichilimento e di perdita di sé  innescate dalle trasformazioni, dai rimaneggiamenti narcisistici e dai lutti connessi al transito adolescenziale, possono cercare “sicurezza” nella dipendenza coatta da oggetti esterni, sensoriali e concreti che possano dargli un’illusoria sensazione di pienezza, integrità e potenza: si pongono così le basi per processi circolari di illusione/crollo e di riempimento/svuotamento che, rimanendo nell’area dell’agito, si sottraggono all’elaborazione e all’evoluzione, ostacolando il processi di soggettivizzazione (Cahn, 1998) che, trovano il loro apice nell’adolescenza, in cui diventa centrale il dilemma tra appropriazione soggettiva di sé e del nuovo corpo sessuato (Laufer, 1984) e accettazione di identificazioni alienanti.

Anche in adolescenza, il ruolo dell’oggetto si rivela vitale e imprescindibile. Infatti se,  con Cahn (2009, 27), pensiamo al processo di soggettivizzazione come ad un “movimento che fa di sé, a partire dall’altro, una realtà viva, esclusiva, che si dispiega […] a partire da questa identificazione fondatrice”, non possiamo non considerare cruciale la funzione dell’oggetto ambiente in tutti i disturbi della soggettualità (i cosiddetti disturbi narcisistici).

Il processo di soggettivizzazione risulta particolarmente difficile per ragazzi giunti alle soglie dell’adolescenza con un bagaglio narcisistico precario e che siano alle prese con genitori a loro volta narcisisticamente fragili, che non si lasciano “usare” (Winnicott, 1968) e che anzi cercano di colmare il loro difetto narcisistico utilizzando i figli come protesi. In queste situazioni, i legami perdono la loro fondamentale funzione di referenti identitari e degenerano in vincoli, interferendo profondamente con lo sviluppo dell’autonomia personale (Shine). I confini, sia a livello intrapsichico che interpersonale, si irrigidiscono e perdono la loro funzione di zona di elaborazione psichica (Racalbuto, ). Risulta ostacolata la formazione di un preconscio funzionale (che possa mediare adeguatamente fra gli stimoli e l’impulso ad agire) così come  l’evoluzione dell’Io ideale in un Ideale dell’Io maturo: in alcuni adolescenti, che manifestano dipendenze compulsive, narcisismo e Io Ideale possono fondersi a danno dell’Io, in una negazione della realtà – a partire da quella del proprio corpo e dei suoi bisogni – sostenuta da un’illusione narcisistica onnipotente quasi delirante (Grumberger,  ).

La dipendenza matura dagli oggetti d’amore costituisce dunque lo sbocco di un complesso e delicato processo di sviluppo identitario che oscilla tra appartenenza e differenziazione. Se l’apparato psichico dell’adolescente è ben funzionante, esso potrà mediare tra appartenenza e individuazione, assicurando un equilibrio tra la salvaguardia di una differenza minimale (necessaria al mantenimento dell’identità individuale) e la soddisfazione del bisogno di contatto e assimilazione con gli altri (Zucca Alessandrelli, 2008). E’ così che, quando le cose vanno bene, l’individuo  approda ad un’identità che si viene a costituire come unica e dotata di un senso soggettivo che conferisce un interno intimo sentimento di autenticità e pienezza.

Patologia del vuoto e dipendenza patologica.

Le persone che manifestano dipendenze patologiche combattono contro un senso di vuoto troppo angosciante per poter essere riconosciuto ed espresso; quello che viene avvertito è piuttosto un bisogno pressante che li assorbe completamente, determinando una ricerca di soddisfazione urgente e compulsiva.

Oggi, le dipendenze patologiche vengono designate sempre più spesso come addictions, termine che  contiene il riferimento ad uno stato di schiavitù, non necessariamente da una sostanza, come classicamente indica il termine di dipendenza, ma da qualunque cosa rappresenti un sostituto d’oggetto concreto, privo di spessore simbolico (droga, cibo, alcol, ma anche sesso, gioco d’azzardo, Internet…). Il bisogno, concreto, sensoriale, coattivo la fa da padrone, occupando tutto lo spazio mentale del soggetto. Al di là delle forme variegate ed eterogenee che può assumere  ciò che la caratterizza la dipendenza patologica non è il suo oggetto ma le modalità relazionali che vincolano il soggetto al suo oggetto di dipendenza, sia esso una sostanza, un’attività o una persona.

Le dipendenze patologiche configurano una schiavitù non solo nei confronti dell’oggetto dell’addiction ma anche nei confronti di una parte di sé che ne tiene in scacco altre. L’Io ideale primitivo richiede l’impossibile al Sé,  costretto ad identificarsi con l’aggressore, cercandone la protezione in uno stato di sottomessa dipendenza che tiene in scacco i desideri libidici e relazionali (Rosenfeld). (ACV)

Elementi ubiquitari nelle dipendenza e patologiche sono la precarietà del senso di sé; la labilità dei confini identitari; la ricerca di una fusionalità che elimini ogni differenza e alterità, interna ed esterna; la carenza o mancanza di capacità introspettive; l’opacità del mondo interno; carenza di capacità di modulazione delle emozioni. Disturbi di mentalizzazione, difficoltà di introiezione e di identificazione matura, elementi di grandiosità scarsamente integrati, predominio della sensorialità sull’affettività e sulle emozioni, impulsività e ricorso all’agito sono altrettanti elementi che caratterizzano il funzionamento mentale dei cosiddetti addicted. L’elemento ricorrente è la ricerca compulsiva di  “sostituti” d’oggetto concreti (non rappresentano l’oggetto ma sono vissuti come se fossero proprio l’oggetto del bisogno) cui attaccarsi per tacitare l’angoscia di non esistere e consistere e di sprofondare in un gorgo sempre più svuotante. Paradossalmente, la dipendenza da questi oggetti e pervicacemente denegata (posso smettere quando voglio).  Una conseguenza di questo funzionamento mentale è uno specifico deficit nella capacità di scansione temporale, che comporta una dilatazione del presente, fino ad assorbire in sé passato e futuro, e che rende impossibile sia la memoria del passato che la progettazione del futuro.

  Con le capacità simboliche, risulta compromessa anche l’area intermedia, transizionale, nucleo fondamentale di un Sé sufficientemente coeso, capacedi attuare scambi creativi con l’altro senza che si mobilitino eccessive angosce di invasione e/o di annientamento, che determinano inevitabilmente chiusure e irrigidimenti difensivi.

Se l’area intermedia è compromessa, come accade quando non sono state introiettate funzioni materne fondamentali quali la capacità di reverie e la funzione paraeccitatoria,  non possono svilupparsi né la fiducia di base –   fondamento sia di una buona autostima – né la capacità di autoregolazione, che consente di modulare le emozioni. L’attaccamento all’oggettorimane sensoriale e concreto, e rimane deficitaria la capacità di riconoscere la figura materna come altro da sé, tollerando lo scarto creato dalla separatezza. La capacità di tollerare l’alterità si sviluppa sulla traccia inconscia lasciata dalla madre come presenza capace sia di trasformare uno stato di disagio in uno stato di benessere che di aiutare il bambino a contenere e sopportare uno stato di disagio, conferendo ad esso un nome e un senso che lo rendano più tollerabile.   Se la capacità di sopportare alterità e frustrazione non si è sufficientemente formata e stabilizzata durante l’infanzia, la percezione degli oggetti esterni sarà fondata su un senso di mancanza e di vuoto, che non potrà che generare relazioni fondate sulla necessità di manipolare e controllare l’oggetto, base di future dipendenze patologiche. Le vie brevi si sostituiscono allora al travaglio elaborativo,  il sentire  al pensare, le sperimentazioni senza progettualità (“le storie”) alle  relazioni, il contatto alla conoscenza e la fusionalità indifferenziata all’intimità nella differenziazione.                  L’oggetto non può essere desiderato, sognato o incontrato, ma deve essere posseduto e consumato compulsivamente, in un presente continuo che si dilata fino ad ingoiare il passato e il futuro e che non consente né memoria né elaborazione. È la stessa dimensione stessa del tempo a collassare. Risulta compromessa la possibilità di incontrare se stesso e l’Altro, in un’esperienza autentica e significativa, suscettibile di fornire un senso di pienezza. Se manca lo spazio interno e le capacità contenitive non sono sufficientemente sviluppate, viene meno la fiducia su cui si basano speranza e progettualità e l’angoscia, non trovando vie elaborative, viene evacuata nell’agito prima ancora di poter essere mentalizzata.  Senso di vuoto e mancanza di senso subentrano così alla percezione confusa, e subito evacuata, di un sé infantile carico di “spaventosi” bisogni che spaventano, proprio per l’incapacità di modularli (ACV). C’è allora l’assoluto bisogno di attaccarsi ad un oggetto concreto, che garantisca una consistenza e /o un rifornimento che non può che rivelarsi ogni volta illusorio.

  Il possesso prende il posto della relazione, il dominio quello dell’incontro in un circolo vizioso in cui il controllo onnipotente tende a sostenere un’autostima non modulata, a cementare un Sé fragile e grandioso al tempo stesso, utilizzando il sostituto d’oggetto come protesi di un senso di sé svuotato, come feticcio nella costruzione di un’immagine illusoria di sé, come un esoscheletro che copra le falle identitarie e i fallimenti del processo di soggettivazione.

Che fare?

Anche se il tema della terapia delle dipendenze patologiche esula dall’intento di questa comunicazione,   vorrei comunque accennare a qualche punto che considero essenziali.

Prima di tutto, poiché il nucleo delle dipendenze patologiche è rappresentato da una dipendenza impossibile, la psicoterapia non mi sembra possa costituire una risposta adeguata, per lo meno in prima battuta, perché implica proprio ciò che ancora non è possibile, un investimento sufficientemente fiducioso in una relazione con un oggetto affettivamente significativo.

Può invece costituire una risorsa una struttura pubblica che possa fornire accoglienza senza cimentare troppo precocemente in una relazione duale chi ancora non può tollerarla. Per funzionare come un porto sicuro, una struttura di accoglienza deve poter funzionare  in maniera sufficientemente integrata. Da questo punto di vista,  la psicoanalisi può fornire agli operatori impegnati in prima linea significativi strumenti di comprensione e di elaborazione delle dinamiche delle addictions. La frammentazione  della storia e del vissuto dei pazienti, gli innumerevoli agiti, i comportamenti distruttivi auto o eterodiretti, gli interventi disorientanti e imprevedibili dell’ambiente familiare, che determinano rotture e  riassestamenti aleatori, cimentano duramente la tenuta degli operatori e la loro capacità di mantenere viva la fiducia e la speranza. Gli strumenti psicoanalitici possono facilitare la costituzione tra gli operatori di un setting mentale condiviso  che, col suo stesso esistere, dà vita ad un contenimento pensante, che aiuta a tollerare la frustrazione, lo scarto temporale, l’impossibilità di una soluzione immediata al bisogno angoscioso; se i curanti vengono aiutati a tollerare la loro personale frustrazione, il senso di impotenza e la rabbia che questi pazienti suscitano e a sopportare i tempi inevitabilmente molto lunghi che una cura richiede, vengono ridotti da una parte i rischi di agiti collusivi e di pericolose frammentazioni e scissioni all’interno del loro stesso gruppo, dall’altra la loro stessa sofferenza.

Da quanto detto finora, è evidente che la terapia delle dipendenze patologiche non può costituire un percorso né semplice né breve, ma deve fondarsi sulla duplice via del contenimento, indispensabile per fornire al soggetto quei limiti e quei confini che non ha potuto strutturare a tempo debito, e di una accoglienza che possa dare un senso all’angoscia e una speranza a chi ne è sopraffatto, (ri)attivando  funzioni autoriflessive e narrative che potranno, in un secondo tempo anche sfociare in una psicoterapia che rimetta in moto processi di soggettivizzazione bloccati o interrotti.

Tra individuale e gruppale.

Le enormi trasformazioni culturali e sociali da cui è stata attraversata la nostra società negli ultimi decenni si ripercuotono inevitabilmente sulla vita psichica (Kaes, 1994), dato che è a partire dall’Altro, dai legami intersoggettivi primari, che si costituisce, fin dall’inizio,  la realtà psichica individuale. Per questo, l’identità individuale, partendo da modelli identificatori plurimi, non può che essere intrinsecamente singolare e plurale al tempo stesso (Kaes, 2007).

L’incrinarsi di valori fino a qualche decennio fa solidamente condivisi ha un’inevitabile ricaduta sui processi identificatori che presiedono alla costituzione dell’identità individuale, che diventano più labili e indefiniti. Il fatto che bambini e  adolescenti siano sempre più spesso confrontati con famiglie diluite e rarefatte e con padri e madri dai ruoli sempre meno differenziati e definiti comporta come conseguenza una certa dispersione identificatoria, poiché la graduale perdita di autorevolezza da parte dei genitori e di coloro che li rappresentano va di pari passo con la diminuzione del loro potenziale in termini identificatori (Cahn, 1998). A sua volta, la disorganizzazione dei tradizionali modelli identitari, oggi sempre più plurimi, incerti e frammentari, ricade inevitabilmente sulla formazione del Sé attraverso i processi  identificatori.

 La crescente diffusione di disturbi correlati a problematiche narcisistiche e identitarie moltiplica il numero dei genitori in difficoltà nel soddisfare i bisogni narcisistici dei figli (sentirsi  pensati, rispecchiati e compresi) e nel fornire loro il contenimento e la reverie necessari per una buona strutturazione di un sé coeso; l’iperinvestimento narcisistico dei bambini da parte dei genitori e il bisogno di eludere i conflitti portano genitori fragili sul piano narcisistico a trattare i desideri dei loro figli come  bisogni improcrastinabili. Essi abdicano così alla fondamentale funzione di porre regole e limiti  contenitivi, fornendo  quel  dosaggio ottimale di frustrazioni che consente la formazione di uno spazio mentale in cui  possa strutturarsi un vero desiderio (Gaddini, 1984).   Con la loro assenza (spesso più mentale che fisica)  e con le risposte “concrete” che forniscono ai bisogni dei figli, riempiti di oggetti, stimoli e attività da consumare velocemente senza approntare per converso adeguati spazi “digestivi”,  i genitori ne sostengono l’onnipotenza, ostacolando la strutturazione di limiti interni, l’evoluzione del narcisismo primitivo, le capacità di mentalizzazione e lo sviluppo delle funzioni di simbolizzazione (Ruggiero, 2009).

In questo contesto, è più difficile che l’adolescente possa trovare nello sguardo dei genitori  rappresentazioni di sé che lo sostengano nel percorso verso la soggettivazione. Al contrario, capita sempre più spesso che i genitori non riescano a vedere che se stessi nei figli e che cerchino nel loro sguardo un supporto per un equilibrio narcisistico precario. Adulti impegnati in difficoltà identitarie saranno inevitabilmente in difficoltà  nel fornire agli adolescenti una cornice simbolica che li  sostenga nell’attraversamento del confine che separa (e contemporaneamente unisce) l’ordine simbolico del mondo infantile e quello della soggettività adulta, separata, differenziata. A loro volta, gli adolescenti che non trovano negli occhi degli adulti uno specchio per il proprio sé in trasformazione si arenano in difficoltà rappresentative e rappresentazionali che li sospingono verso comportamenti evacuativi e/o verso dipendenze compulsive. 

Infiltrazioni adolescenziali nella Società adulta

La perdita dei valori di riferimento tradizionali, la latitanza sempre maggiore della funzione paterna e delle strutture superegoiche, la diffusione identitaria, il crescente sfumare delle fondamentali differenze del crocevia edipico (tra bambino e adulto e tra maschio e femmina), l’espandersi di aree di ambiguità sempre più ampie (tra il vero e falso, fra l’immagine e la realtà, tra l’essere e l’apparire), la fragilità dei legami e l’aumento di modalità agite nell’affrontare le tensioni interne, sono tutti fattori che contribuiscono a creare un senso di disorientamento e di incertezza che ha una ricaduta drammatica nell’impossibilità degli adulti di contenere adeguatamente le angosce identitarie degli adolescenti (Ruggiero, 2008).

Pervasa da difficoltà a comprendere e contenere i suoi stessi movimenti di trasformazione, tanto più rapidi quanto meno pensati, la cultura attuale appare, nel suo complesso, poco attrezzata a sostenere il processo adolescenziale, proprio per la diffusa infiltrazione di elementi adolescenziali che  si configurano come fattori cronici di non contenimento per gli adolescenti (Levy, 2007).

 Così la Società adulta, sempre meno incline a confrontarsi con l’assenza  (Badoni, 2009), quasi allergica nei confronti delle trasformazioni che il passaggio del tempo produce e degli inevitabili lutti con cui ci confronta e pervasa da un consumismo vorace, tende a contrabbandare come normali certe caratteristiche additive nel rapporto con gli oggetti di consumo (basti pensare alla bottiglietta d’acqua che, con le più svariate razionalizzazioni,  molti adulti  portano con sé ovunque e a cui si attaccano periodicamente come se fosse un biberon) utilizzati – in modo conformistico e indifferenziato, come fonti di una “sicurezza” fondata sul possesso di oggetti svuotati di ogni spessore simbolico (shopping compulsivo). Non di rado, l’acquisizione, il possesso diventano fine a se stessi, in un circolo vizioso di svuotamento e  riempimento sensoriale ripetuto all’infinito.

La crescente dilatazione del presente fino ad occupare gran parte dello spazio mentale, rischia di occludere  sia la ricchezza insita nella memoria del passato che la tensione vitale racchiusa nella progettualità: tutto e subito o nulla mai! Un aspetto non secondario di questo sviluppo ipertrofico del presente è costituito dall’allentarsi del legame verticale tra le generazioni a favore dello sviluppo di legami orizzontali tra coetanei, a sottolineare che solo l’età presente, il momento presente, sono emotivamente significativi.   Life is now! Anche nella comunicazione, la velocità – anzi, l’istantaneità – ha preso il posto della profondità: dilagano contatti  rapidi e superficiali, caratterizzati da un lessico impoverito e spersonalizzato: sms, chat, twit… rivelano, sotto la loro “modernità”, un bisogno compulsivo di contatto permanente, di carburante narcisistico grezzo e a basso costo. Non sono i nuovi mezzi tecnologici a costituire un problema ma l’uso tossicomanico, senza limite, che ne viene fatto.

Così, nella  Società attuale è che, mentre si vanno diffondendo sempre di più  comportamenti a carattere compulsivo (dipendenze non da droga), diventa sempre più sfumato il limite tra patologia e aree di cosiddetta normalità. Si riduce progressivamente la soglia qualitativa e quantitativa che divide le cosiddette nuove dipendenze da modalità esistenziali oggi sempre più diffuse, caratterizzate da depressione strisciante, difficoltà di investimento affettivo profondo, carenza di autonomia e progettualità personale, iperattività, consumismo conformistico, appiattimento, angoscia verso le differenze individuali, compulsioni multiple. Questa crescente infiltrazione di caratteristiche adolescenziali contribuisce alla graduale dissolvenza della differenziazione e dei confini basilari del crocevia edipico – tra adulto e bambino, tra maschio e femmina – determinando “nuove forme di psicopatologia della vita quotidiana” che rappresentano una vera e propria patologia diffusiva del desiderio e della umana capacità di desiderare (Vigneri, 2008), in cui il desiderio regredisce ad un appetito divorante e coattivo. Oggi sono proprio i limiti (tra sé e l’altro, tra pensare e agire, tra interno esterno, tra reale e virtuale) che vanno sempre più sfumando,  sia a livello individuale che socio- culturale, in una indifferenziazione sempre più diffusa e in una crescente ambiguità (Argentieri, ).

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