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Bigenitorialità

Per “bigenitorialità” si intende il diritto dei figli a continuare ad avere rapporti allo stesso modo con il padre e con la madre anche dopo la loro separazione, sulla base dell’incontestabile verità che si resta genitori per tutta la vita nonostante il venir meno del vincolo matrimoniale. Questo in ossequio a quanto stabilisce la nostra Costituzione, la quale all’art. 30 riconosce ad entrambi i genitori il diritto – dovere di mantenere, istruire ed educare i figli.Il nuovo articolo 155 c.c., nel ribadire il diritto del figlio minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori e di ricevere da entrambi cura, educazione ed istruzione, conferma il criterio guida che il giudice deve seguire nell’adottare i provvedimenti relativi alla prole, ossia, ancora una volta, l’interesse morale e materiale di essa. L’affidamento monogenitoriale è confinato alle sole ipotesi in cui l’affidamento all’altro genitore sia ritenuto dal giudice contrario all’interesse del minore (art. 155 bis).I mutamenti avvenuti nella società e nella famiglia italiana negli ultimi decenni mettono gli psico-professionisti di fronte a nuove forme di disagio crescente. Le cessazioni di convivenza, le separazioni e divorzi costituiscono eventi sempre più frequenti nella nostra società, e le famiglie sono sottoposte a traumatiche destrutturazioni. I professionisti della salute mentale assistono alla graduale ma consistente crescita delle richieste di trattamenti psicoterapeutici o psichiatrici da parte di coloro che si trovano coinvolti nell’interruzione o nella radicale modificazione dei rapporti familiari. Quindi, la separazione si configura come un evento stressante a rischio di slatentizzare aspetti psicopatologici in soggetti, ritenuti in precedenza normali, che erano tenuti in fase di compenso dalla relazione coniugale e dal rapporto genitore-figlio.
Purtroppo, l’attuale assetto culturale e normativo fa sì che, a seguito della separazione, residuino pericolose sacche di conflittualità spesso non trattate, nelle quali la dimensione coniugale e quella genitoriale restano malignamente confuse ed agite attraverso l’iter giudiziario. Il conflitto, anche se non agito nella convivenza familiare, si trasferisce nell’ambito giudiziario. Ma il sistema giudiziario può dirimere solo questioni materiali, lasciando inalterata l’incomprensione dei fattori psicologici che hanno ridotto i protagonisti della vicenda al fallimento del loro progetto di vita in comune. I figli spesso si trovano ad essere utilizzati dai genitori come sostituti del partner perduto, trovandosi così ad essere come psicologicamente orfani. Più il conflitto – ivi compreso quello giudiziario – si protrae, più i figli dovranno subire un impoverimento del contributo dei genitori alla loro crescita, essendo così costretti ad adultizzarsi precocemente per poter far fronte alle proprie esigenze

Quando si parla di gruppo Auto Mutuo Aiuto (A.M.A.) si intende una categoria piuttosto complessa che comprende gruppi con caratteristiche differenti. Forse ci si riferisce a distinzioni che di primo acchito balzano più agli occhi dei tecnici, ma sicuramente il parteciparvi fa sentire ben presto la differenza tra gruppo e gruppo, clima e clima, ecc.

La distinzione certo più significativa riguarda la presenza o meno di un facilitatore, che noi auspichiamo come garante del lavoro che si va svolgendo. Resta inequivocabile che il gruppo A.M.A. è innanzitutto un gruppo che si crea per fornirsi reciproca assistenza tra persone che hanno un problema in comune. In America sono una realtà ormai diffusa e praticata, come la psicoterapia, ma anche in Italia sono sempre più richiesti, come risposta a forme di disagio e malessere non raggiungibili con altre forme più tradizionali di cura.

L’idea A.M.A. è nata con gli Alcoolisti Anonimi, ma è funzionale l’utilizzo di tale modello con persone aventi a che fare anche con altri disagi, ad esempio i disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie, etc.), il gioco d’azzardo, le malattie tumorali, le cardiopatie, i problemi di coppia, l’essere separato, divorziato e/o vedovo, l’esser donne che amano troppo, la difficoltà a realizzarsi sentimentalmente, la disoccupazione, l’essere il familiare di un paziente malato, la situazione di ex carcerato, di ex paziente psichiatrico, la tossicodipendenza, l’esser partner di tossicodipendenti, la depressione, la solitudine, i disturbi sessuali, i figli con handicap, i disturbi alimentari, etc….

Qualcuno di noi può immaginare una vicenda più terribile di un genitore che perde un figlio? E cosa ci può essere di più tragico dell’avere cagionato in prima persona la morte del bambino amato? E’ quello che capitò a una donna al tempo di Salomone, re in Israele: mentre ella dormiva, schiacciò il bambino con il suo peso. Pensò bene così di sostituire il bambino morto con il figlio di una donna che abitava con lei. Ma questa se ne accorse e cominciarono a litigare. Chi meglio di Salomone, noto per la sua saggezza ed equanimità avrebbe potuto dirimere la questione: di chi è figlio il bimbo conteso? Allora il re fece portare una spada e ordinò: “tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”. Tutti noi ricordiamo la conclusione della storia: le viscere (l’utero) di una delle due donne si commossero, indicando l’altra disse: date il bambino a lei, purché egli possa vivere! L’altra rispose “non sia né mio né tuo; dividetelo in due”. Il re comprese bene così chi fosse la madre del bambino vivo e poté pronunciare una sentenza che ebbe una vasta risonanza in Israele ed è arrivata anche a noi: davvero la saggezza di Dio era in Salomone per rendere giustizia! (cf. 1 Re 3)

La sala del regno si trasformò allora nella “stanza della mediazione”, non tanto per il metodo usato (il Forum europeo non avrebbe probabilmente approvato) ma per avere messo al centro non le richieste dell’uno o dell’altro dei contendenti; al centro dell’interesse c’è un figlio e che questo figlio possa vivere pienamente. Non c?&egr’ve; spazio nella mediazione per chi invece vuole anteporre le proprie esigenze (pur con tutta l’umana comprensione per chi ha vissuto un’esperienza tragica), né per chi vuole usare i figli come strumento per placare il proprio dolore o strumento di rivalsa contro l’altro.
Abbiamo così indicato il fil rouge che deve accompagnare tutto il percorso di mediazione: il domandarsi quali siano le esigenze dei figli. Non si tratta – come dice qualcuno – di attenzione esclusiva alle necessità dei figli; dovrà essere piuttosto un’attenzione inclusiva: se ci poniamo in ascolto delle domande dei figli e ci preoccupiamo del loro bene, facciamo anche il nostro bene, realizziamo anche il nostro essere adulti (dove per adultità si intende la capacità oblativa di spendersi per l’altro).
Chi è tuttavia quel genitore che, interrogato, risponda di non volere provvedere al bene del figlio? Forse anche la donna smascherata da Salomone, accecata dal dolore, poteva tragicamente essere convinta di agire per il meglio.
Senza affrontare i casi limite che possono sfociare nel patologico (dove la mediazione nulla può fare e occorre inviare al servizio di igiene mentale), il mediatore ha una profonda fiducia nella capacità dei genitori di fare bene il loro mestiere (è anche per questo che diverse scuole di pensiero preferiscono non coinvolgere direttamente i figli nel percorso). Senza questa fiducia che è anche fiducia dell’un genitore nei confronti dell’altro, ogni accordo raggiunto è puramente fittizio. Tale fiducia tuttavia è più un punto di arrivo che di partenza e cresce con il progredire del confronto e del dialogo. La mediazione diviene così un training , in cui i genitori riscoprendo il dono della parola su cose concrete (quando e come comunicare ai figli la decisione di separarsi; l’organizzazione quotidiana e il calendario dei tempi; il racconto di quello che i figli fanno e dei sentimenti che esprimono, i bisogni che emergono; le regole di vita condivise – quando e cosa guardare alla tv, per esempio -; il tema della scuola; il ruolo dei nonni e delle altre figure affettivamente significative; ecc.), imparano a relazionarsi anche in futuro, non più come coniugi o conviventi, ma come genitori. Il mediatore, non professionista neutrale, ma equivicino, capace cioè di prendere le parte di entrambi, aiuta la coppia separata o in via di separazione a chiarire tutti i fraintendimenti che sono sul campo: “dato che tu sei stato un cattivo coniuge, non puoi essere una brava madre o un bravo padre”.
La mediazione è così uno spazio libero, autonomo, dove i genitori sono invitati ad assumersi la responsabilità delle scelte. Se così non facessero, altri deciderebbero al posto loro. E sappiamo quante volte purtroppo la vicenda separativa si configuri come una partita di calcio in cui i tifosi o facinorosi, non contenti di come gli atleti abbiano giocato o dell’operato dell’arbitro, invadono il campo per fare valere i propri presunti diritti. In questo caso il calcio c’entra poco; parimenti il bene di figli e genitori non è compreso quando figure terze fomentano il conflitto invece che sostenere il dialogo. A volta le guerre si fanno per conto terzi: le famiglie di origine possono intervenire per mettere l’uno contro l’altra. “Non datemi consigli, so sbagliare da solo” ripeteva spesso Enzo Biagi. Sarebbe troppo pensare a percorsi paralleli di crescita, al di fuori della mediazione, rivolti a nonni, zii e nuovi partner?
Ritorniamo allora al dubbio che era sorto: chi è quel genitore “sano” che non è convinto di fare il bene del figlio? Per questo il mediatore, pur nutrendo la fiducia nella capacità dei genitori, ha il compito di vigilare affinché la coscienza sia illuminata dal confronto con i risultati delle ricerche in campo pedagogico, psicologico e giuridico, oltre che dal buon senso. Sappiamo bene come il dolore o il rancore possano ottenebrare la vista e far apparire bianco ciò che è nero e viceversa. Vivere la separazione è come addentrarsi in una foresta intricata e perdere la strada. E’ utile salire su un albero per poter guardare le cose ad una certa distanza e riscoprire la direzione verso cui incamminarsi. Il mediatore non percorre il cammino al posto dei genitori, né indica la strada, ha solo la pretesa di essere un buon albero su cui salire. “Sei sicuro che il bene del bambino sia essere tagliato in due dalla spada?”: questa è la domanda che il mediatore rivolge spesso ad entrambi i genitori per porre l’attenzione sull’essenziale.
Carlo e Giovanna, appena trentenni, hanno deciso di separarsi. Si rivolgono a un centro di mediazione per essere aiutati a riscoprire le ragioni del dialogo. Si sono comunque già confrontati su come comportarsi nei riguardi dei due figli che amano con tutto il cuore: “diremo loro che papà e mamma non vanno più d’accordo e hanno deciso di vivere in case diverse; diremo di non avere paura perché noi li lasceremo mai soli e vorremo loro sempre bene”. “bene, è importante che i bambini sappiano che continuerete a volere loro bene, ma quando direte loro tutto questo?” “alla sera, dopo cena, poco prima di andare a letto”.
In cosa consiste a questo punto il compito del mediatore? Invita a riflettere se la scelta dei tempi risponde prima di tutto a un bisogno dei figli o alla loro esigenza di adulti spaventati. Aiutare ad avere sempre chiara questa distinzione: questo è il compito fondamentale della mediazione. Nell’esempio, aiuta a comprendere che i figli, specie se piccoli, non hanno gli strumenti per elaborare gli avvenimenti: non possono essere lasciati soli in questo compito.
Alla fine, Carlo e Giovanna decideranno di comunicare la notizia alla domenica, per poter avere tutto il tempo di stare con i figli ed osservare le loro reazioni.
Infine, forniamo uno schema riassuntivo delle fasi del processo di mediazione. Tra i tanti, scegliamo lo schema proposto da Costanza Marzotto dell’Università Cattolica di Milano:

·  Introduzione delle persone e creazione di un clima di fiducia

·  Identificazione dei punti di conflitto e loro priorità

·  Individuazione delle opzioni e delle alternative possibili circa la soluzione dei problemi

·  Negoziazione e presa di decisione

·  Redazione di un progetto d’intesa

·  Revisione legale del progetto

·  Messa in opera del progetto d’intesa ed eventuale sua revisione

Per brevità, ci soffermiamo solo sulla fase negoziale. La premessa fondamentale è che i genitori devono mantenere la relazione tra di loro dato che hanno per sempre in comune il destino dei figli. Come afferma Cigoli, in collaborazione con Marzotto, la negoziazione è un lavoro che parte dagli interessi e dai bisogni delle persone e non dalle posizioni o dagli schieramenti. Se si rimane nella logica delle posizioni contrapposte infatti si è ancora nella logica del vincente e del perdente e la relazione s’interrompe.
Carlo esprime il desiderio di passare il Natale con figli e genitori di lui e Giovanna vorrebbe invece portare i bimbi dalla nonna materna rimasta sola. Una strada possibile è invitare i due di scegliere tra una soluzione o l’altra. Ciò significherebbe per uno rinunciare al proprio territorio e far sì che l’altro lo occupi (logica del vincente e del perdente, dove magari chi vince può così vendicarsi delll’altra volta in cui ha avuto invece la peggio). L’altra strada, quella della negoziazione, è invitare ad esplorare altre possibilità, altri territori diversi dai precedenti. Si tratta di un “territorio terzo” a cui entrambi possono approdare dopo avere espresso sentimenti e giudizi: un territorio comune.
La medotologia della negoziazione segue quattro punti (Fisher e Ury):

1)Trattare separatamente i problemi interpersonali e i motivi di controversia

2)Concentrarsi sugli interessi in gioco e non sulle prese di posizione

3)Immaginare soluzioni che procurano reciproco beneficio

4)Richiedere l’applicazione di criteri intersoggettivi

Dice il Buddha: “il viaggiatore, se non incontra a tenergli compagnia uno migliore di lui o simile a lui, proceda decisamente da solo: con lo stolto non vi è compagnia”. La scommessa che facciamo è che la mediazione sia un’opportunità offerta a quei viaggiatori, che non costituendo più una coppia, desiderino comunque incontrare un simile (l’altro genitore, per l’appunto) per condividere il cammino e l’avventura educativa.

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