Fino agli inizi del’900 è stato prevalente il paradigma di identificazione dell’omosessualità con una patologia psichiatrica: sulla base di tale modello, le persone omosessuali venivano considerate degli “invertiti”.
Per lungo tempo, l’atteggiamento socio-culturale eterosessista e la conseguente discriminazione nei confronti delle persone omosessuali hanno contribuito a radicalizzare le convinzioni di medici e psichiatri, alimentandosi vicendevolmente.
In seguito ai mutati scenari socio-culturali, ricerche realizzate negli Stati Uniti intorno agli anni ’50, ’70 e ’80 . Nel 1987 abolisce anche la diagnosi di “omosessualità egodistonica”, dove l’orientamento omosessuale è indesiderato e vissuto in modo conflittuale. Viene così riconosciuto il legame tra la non accettazione del proprio orientamento sessuale e l’interiorizzazione dell’ostilità sociale. L’eliminazione dell’omosessualità dalla lista dei disturbi mentali, insieme con una crescente accettazione da parte della comunità, ha gradualmente portato, almeno nel mondo occidentale, ad un atteggiamento più illuminato nei confronti delle questioni riguardanti la sessualità e l’orientamento sessuale.
Dal 1973, tuttavia, sono dovuti trascorrere quasi venti anni prima che la decisione dell’APA venisse ufficialmente condivisa anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), adeguatasi solo nel 1990.
Più recentemente, sono stati mossi i passi nella direzione di un approccio fenomenologico e sociologico all’omosessualità. Per esempio, il filone degli studi “sex & gender” radica il nuovo paradigma interpretativo dell’omosessualità nell’ambito della riflessione sul concetto di genere non più riferito alla biologia, quanto piuttosto concepito come costruzione sociale che si origina nell’evoluzione della cultura umana.