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Riflessioni sul saggio di F. De Zulueta

Dal dolore alla violenza, le origini traumatiche dell’aggressività
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Riflessioni sul saggio di De Zulueta Felicity

La tesi dell’autrice è che la distruttività umana sia il prodotto di un trauma psichico.

Ciò è in antitesi con le teorie di Freud dell’istinto di morte e di coloro che sostengono l’origine genetica e istintuale dell’aggressività: etologi, sociologi, biologi, medici, psicologi e psicoanalisti, convinti che non sia possibile cambiare la natura violenta dell’uomo. Si può prendere, ad esempio, il concetto di aggressività e violenza in:

K. Lorenz 1966: “Istinto che aiuta ad assicurare la sopravvivenza dell’individuo e della specie e che nell’uomo diventa distruttivo perché l’evoluzione culturale (sviluppo tecnologico, armamenti) ha superato l’evoluzione biologica”;
Lionel Tiger 1984: ” predisposizione ereditaria geneticamente programmata collegata alla sessualità”. La solidarietà maschile è il principale strumento di organizzazione dell’aggressività e della violenza. Mascolinità = a coraggio, uso della forza, velocità… fin dai tempi dell’uomo primitivo che cacciava per sopravvivere;
Paul McLean 1987: espressione regressiva filogenetica del primitivo cervello rettile; altruismo ed empatia sono acquisizioni più recenti (scuola di pensiero detta “paleo psicologia umana”);

Psicoanalisti come A. Storr 1968: “Istinto radicato nella caratteristica biologica prolungata dipendenza e impotenza del bambino e nell’abilità intellettiva di proiettare sugli altri sentimenti indesiderati”. Storr inoltre ritiene che i maschi siano più aggressivi delle donne e che questo giustifichi la loro superiorità sociale nelle “imprese intellettuali e creative”;
Sociobiologi americani come Edward Wilson 1978: ” istinto basato sui geni che interagisce con l’ambiente, per cui in alcuni ambienti è più probabile si sviluppi la caratteristica aggressiva”. Distingue tra violenza appresa e violenza profonda e irrazionale. Rifiuta l’ipotesi che l’aggressività umana possa essere il sintomo patologico di un trauma. Wilson crede che l’uomo sia programmato a vedere l’altro come diverso, tratto che attribuisce a “un impellente bisogno di dicotomizzare”.
De Zulueta sostiene che le conclusioni cui arrivano gli autori precedenti siano usate per giustificare le pratiche coercitive attuate da alcune società per mantenere il potere e la ricchezza nelle mani di pochi. Cita anche Ashley Montagu, il quale nella sua analisi sulla dottrina del peccato originale inteso come potente principio persuasore dell’innata cattiveria umana, riporta il pensiero di Glover, uno psicanalista inglese (1960) che definì il bambino… “un criminale nato”.

Basi teoriche della tesi di De Zulueta:

teoria delle relazioni oggettuali (Fairbain)
Teoria dell’attaccamento (Bowlby)
Psicologia del sé (Kohut)
Il suo approccio alla violenza e alla guerra è multidimensionale (etologia, biologia, psicologia e psicoanalisi, antropologia). L’autrice stessa è biologo, medico, psichiatra e psicoterapeuta. Lei rileva l’interazione tra individui in via di sviluppo (con la propria eredità genetica) e il loro ambiente (anche culturale), tra fattori biologici e ambientali (vedi esperimenti su amigdala→ se stimolata, suscita il comportamento d’attacco se è presente un oggetto “sicuro” pag. 36).

Nel suo libro vuole dimostrare due cose:

1) che l’essere umano ha un innato “bisogno di compagnia” che prevale sull’aggressività

2) che negli esseri umani opera un meccanismo/processo psicobiologico attraverso il quale il trauma può essere convertito in comportamento distruttivo

Definizione di trauma psichico:

LINDEMANN (1944): “Un improvviso, incontrollabile sconvolgimento dei legami affiliativi”.
De Zulueta: “Un’improvvisa rottura dei legami di attaccamento”, che fa sperimentare sentimenti di estrema impotenza e vulnerabilità e produce modificazioni sul piano sia psichico sia biologico.
DSM-III (1980): il trauma è un evento “al di fuori dell’esperienza consueta e tale da evocare grave malessere (stress) nella maggior parte delle persone: ad es. seria minaccia per i figli, coniuge o parenti stretti, amici; distruzione improvvisa della propria casa o comunità; assistere a ferimento, omicidio o violenza fisica”.
In seguito al trauma alcune persone sviluppano una reazione post traumatica da stress (PTSD). Essa è essenzialmente una reazione bifasica, che implica da un lato il rivivere l’evento traumatico, dall’altro un senso di ottundimento psichico o di riduzione della risposta emotiva al mondo esterno. Le persone traumatizzate si trovano a rivivere l’evento traumatico attraverso pensieri intrusivi (flash back visivi), incubi, ricordi angoscianti, comportamenti che riproducono il trauma (come vittima o persecutore). La risposta “ottundimento psichico” è molto simile a quello che si vede nel lutto: uno stato psicologico in cui le vittime riferiscono di sentirsi emotivamente distaccate, incapaci di sentirsi vicine a quelli che amano, con pochi interessi per le relazioni sessuali o per i piaceri in genere. Queste persone s’isolano e si ritirano dagli obblighi famigliari. Questo distacco emotivo può servire a evitare ricordi intrusivi e rivissuti emotivi del trauma. Le persone traumatizzate hanno difficoltà a concentrarsi, a ricordare le cose, sono molto eccitabili o allarmate, hanno un irrazionale senso di colpa. Se esposte a qualcosa che ricordi loro l’esperienza traumatica, la rivivono con tutti i sintomi e vissuti descritti sopra (vedi diversi esempi su veterani del Vietnam, prigionieri di guerra, vittime dei campi di concentramento).

Il PTSD si sviluppa in tutte le persone che hanno vissuto un trauma estremo.

Fattori caratteristici sono: natura del trauma, durata, intensità, stadio dello sviluppo, età, importanza del significato attribuito (com’è stato percepito e sensazione soggettiva di riuscire a superarne gli effetti; correlato al mondo interno, alle esperienze passate, ai sentimenti, alle fantasie e alla predisposizione genetica; correlato anche all’ambiente sociale e culturale). I traumi causati dall’uomo producono più PTSD che le catastrofi naturali (importanza della condivisione, dell’aiuto reciproco, della solidarietà e del sostegno sociale). Il PTSD può durare molti anni, a volte tutta la vita e può avere ripercussioni anche sulle generazioni successive.

Definizione di violenza:

Dall’Oxford English Dictionary: “Trattamento o uso tendente a causare danni corporei o interferente in modo forzato con la libertà individuale”→ accento sul concetto di violazione della libertà individuale.
Per De Zulueta è violento quel comportamento aggressivo che non si limita a danneggiare le persone ma le oltraggia o le viola come esseri umani. La violenza è la manifestazione di un trauma infantile, a sua volta causato da un attaccamento “andato a male”.
L’autrice afferma che non è facile definire la violenza distinguendola dall’aggressività (per Bowlby aggressività “trasformata”; “maligna” per Fromm). L’autrice non chiarisce bene la natura dell’aggressività. Parlando di Winnicott, afferma che “correttamente” egli riteneva l’aggressività una generica espressione di vitalità o di attività, anche se non affrontò il problema della distruttività e delle sue origini. De Zulueta sembra condividere il pensiero di Fairbairn, secondo il quale l’aggressività è una risposta alla frustrazione e quello di Kohut per il quale “le pulsioni” derivano dai fallimenti ambientali (errori dei genitori). Questi possono avere anche un ruolo strutturante se avvengono nel momento giusto (cioè se esiste un Sé saldo in relazione con un oggetto Sé), se sono graduali, non repentini né massicci. In questo caso sono funzionali all’affermazione del Sé. La violenza per Kohut è espressione di un Sé non coeso, è l’esplosione della rabbia narcisistica, che origina nell’esperienza infantile dall’assoluta impotenza di fronte all’oggetto Sé.
De Zulueta afferma che nella definizione di violenza è decisivo il significato particolare dato al comportamento aggressivo (che si può manifestare tra le persone ma anche contro se stessi), ma che questo significato è fortemente influenzato dalla cultura e dal contesto sociale.
È l’interpretazione, mediata da cultura e contesto sociale, che distingue tra comportamento aggressivo e comportamento violento, che segna il limite tra un comportamento “normale” e un abuso (uccidere un altro uomo come violenza, autodifesa, legittima aggressione… atto di giustizia). Ecc.). Tale interpretazione risente dunque anche dei valori attribuiti alla persona umana, come il rispetto o meno verso tutti gli esseri umani. Ciò spiega perché esistono le discriminazioni verso le donne e gli stranieri, le torture, i maltrattamenti e le persecuzioni e perché tanti medici e psichiatri ne hanno fatto parte.

Ne discende che:

Il problema della violenza è un problema sociale, culturale e non solo individuale.
C’è un problema di riconoscimento perché anche se l’atto è violento per la vittima e il testimone, può non esserlo per l’aggressore.
C’è nell’aggressore un “bisogno di essere violento”, che non può né deve essere spiegato come solo istinto irrazionale, ma come la ricerca e la clinica dimostrano è spesso legato a un Sé compromesso da esperienze di deprivazione, perdita, abuso che vive in un contesto culturale e sociale che approva il comportamento violento o lo ritiene inevitabile.
Come se ne esce? Occorre prima di tutto riconoscere il prevalere del bisogno di relazioni sugli istinti. Siamo animali essenzialmente sociali, cooperativi, con un enorme bisogno dell’altro. L’altro c’è necessario perché ci dà affetto, sostegno e soprattutto riconoscimento (“convalida la nostra esistenza personale” altrove: “Ci preserva a livello fisiologico ed emotivo”). Questo però comporta riconoscere la dipendenza dagli altri e dagli eventi di vita, la nostra fragilità di fronte alla perdita, alla malattia e alla morte. Sono necessari quindi un cambiamento culturale e la prevenzione e la cura dei disturbi dell’attaccamento.
Definizione di abuso:

Tutti i tipi di maltrattamento come trascuratezza, abuso psicologico, fisico e sessuale. Per trascuratezza s’intende mancanza di appropriato controllo o del soddisfacimento dei bisogni di base del bambino e per abuso psicologico la costante attenzione negativa sotto forma di critiche o svalutazioni continue o mancanza di attenzione sotto forma di ritiro o di rifiuto.
VIOLENZA COME ATTACCAMENTO ANDATO A MALE

De Zulueta collega la violenza all’effetto traumatico di un attaccamento danneggiato. Per dimostrare questo, parte dal racconto di un caso di maltrattamento e di omicidio di una bambina da parte del padre (primo capitolo parte 1). Lei sostiene che chi abusa è sempre stato a sua volta abusato da piccolo. In caso di abuso è importante verificare attraverso un’anamnesi attenta e dettagliata se vi sono stati abusi e maltrattamenti nella storia infantile degli abusanti

L’esperienza della crudeltà e dell’indifferenza dei genitori, solo apparentemente dimenticata, viene interiorizzata sotto forma di rappresentazioni mentali che rimangono nella mente a livello inconscio. Queste esperienze traumatiche possono essere riattivate nell’adulto dall’angoscia mostrata dal proprio bambino (urla, pianto, protesta). Il genitore rivede se stesso bambino nella sofferenza del figlio, risente la rabbia fino a quel momento scissa, ma per difesa s’identifica con i propri terribili genitori, così che la rabbia si sfoga sul figlio divenuto il “mostro” che egli è stato per i propri genitori.

Definizione di scissione: processo dissociativo che ci permette di tollerare l’ansia insostenibile derivante da sentimenti d’impotenza di fronte ad esperienze di abbandono e di abuso.

Non tutti i bambini abusati riproducono questo pattern con i propri figli. Qual è la differenza? Sta nella potenza e nell’uso delle difese. Ad esempio l’uso massiccio della proiezione, della scissione, della tendenza a vedere l’altro come un “oggetto”.

Nel cap. IV parte 1, l’Autrice fornisce le prove riguardo al bisogno fisico e psicologico dell’altro nel corso dello sviluppo, con particolare riferimento al comportamento d’attaccamento.

L’attaccamento è descritto come una specie di “sintonizzazione” biopsicologica che avviene in tutte le fasi della vita. Risponde a bisogni di modulazione della stimolazione e dell’eccitabilità. Attraverso il processo di sintonizzazione madre-bambino divengono “un sistema interattivo” passando da un livello biosociale a un livello biopsicologico.

Questa sincronia, espressione di attaccamento, si può osservare non solo nella relazione madre-bambino, ma anche nel gruppo, nelle coppie e nella relazione terapeuta-paziente.

La separazione, il lutto, la perdita ci fanno capire quanto bisogno abbiamo l’uno dell’altro (cita Freud in Lutto e melanconia; Suttie; Spitz, Bowlby; Harlow; McLean). Separazione e perdita generano cambiamenti neurofisiologici come nel lutto e alcuni di questi possono essere permanenti soprattutto se si verificano nell’infanzia. Di conseguenza gli individui possono diventare più sensibili agli eventi stressanti.

Quando la separazione è dovuta a un disordine della sintonizzazione, si possono verificare: disorganizzazione fisiologica, comportamento depresso, vulnerabilità alle malattie a causa dei cambiamenti nel sistema immunitario.

Fattori che incidono sul comportamento d’attaccamento:

Modalità di allevamento
Il rapporto precedente al distacco
Com’è avvenuto il distacco
Che cosa è accaduto dopo
Reazioni individuali determinate anche dalla predisposizione genetica a sviluppare depressione (attenzione la “protesta” è prova dell’avvenuto attaccamento).

Molti fenomeni biochimici sono stati individuati sul comportamento di attaccamento e alla separazione (es. Panskepp: tutti i processi secondari attraverso i quali gli attaccamenti sono espressi dipendono sia dalla capacità dell’organismo di provare sofferenza in seguito alla separazione, sia dalla capacità di provare conforto alla riunione). Scoprì che l’uso di antagonisti degli oppiacei aumenta grandemente il bisogno di attaccamento e viceversa la sua somministrazione la riduce→legame sociale come “dipendenza da oppiacei endogeni”.

Nel V capitolo parte 1, l’Autrice dimostra perché la violenza può essere considerata il risultato del fallimento dell’accudimento, citando gli studi sulla deprivazione materna (nell’uomo e nelle scimmie) e sulla psicobiologia della deprivazione sociale.

Nel cap.VI parte 1 sono descritte 4 modalità di relazione d’attaccamento (dalla Strange Situation).

A → evitante; bambino apparentemente indifferente (si disconnette), aggressivo vs pari e mamma prevalentemente trascurante e rifiutante (in particolare al contatto corporeo), più collerica e minacciosa, deride ecc. Spesso abusante anche fisicamente;
B→ sicura; bambino che protesta e cerca coccole alla riunione; mamma disponibile;
C→ ansiosa; bambino appiccicoso, ansioso, ambivalente rabbioso; mamma poco sensibile al pianto e alla comunicazione;
D→ disorganizzante/disorientante: bambini “intontiti”, bloccati, apparentemente depressi, confusi ecc.; spesso si è riscontrato un grave trauma.
Altri studi dimostrano che:

I comportamenti delle madri e dei loro figli sono correlati ai modelli interni di relazione delle madri→sul comportamento genitoriale influiscono non solo le esperienze reali ma anche significati e interpretazioni date alle proprie esperienze infantili, anche se “il passato è continuamente riorganizzato secondo i bisogni e delle strutture attuali”.
Le separazioni prolungate hanno effetti importanti come il comportamento evitante e distaccato: il bambino sembra adattato alla perdita, tuttavia, a un livello più profondo, sia il pensiero sia il comportamento sta attivamente riorganizzandosi lontano dal genitore e dal ricordo del genitore. Dal punto di vista psicoanalitico la relazione d’attaccamento viene scissa e rimossa. Caso interessante di un giovane a cui era morta la madre a 9 anni (pag. 124).
Il cap. VII parte 1 l’Autrice parte dall’analisi di un caso di Kohut per dimostrare due cose:

1. L’importanza dei processi psicologici che ci consentono di adeguarci a perdita, separazione e deprivazione e di preservare il senso di Sé.

2. L’utilità di adottare il modello relazionale oggettuale nell’analisi dei pazienti, che mette al centro il Sé e il bisogno dell’altro.

La tendenza alla distruttività nasce quando il Sé e l’oggetto non riescono a corrispondere alle reciproche attese concernenti il loro funzionamento che “sia la disponibilità incondizionata dell’oggetto Sé speculare approvante o dell’oggetto idealizzato che permette la fusione”.

L’aggrapparsi all’oggetto cattivo serve ad affrontare il terrore annichilente della totale solitudine.

Deprivazione, perdita, abuso possono impoverire il Sé a tal punto che difenderlo diventa di capitale importanza, non importa con quale costo per l’altro.

Il capitolo VIII si occupa dei meccanismi difensivi, che ci proteggono dalla rabbia narcisistica e dalle angosce di annientamento legate ad autentiche esperienze di assoluta impotenza e vulnerabilità.

L’uso delle difese può compromettere la percezione della realtà interna ed esterna e le capacità cognitive anche dello psicoterapeuta. Esse sono attive non solo nei pazienti ma anche nei curanti.

Esempi:

Paziente che rifiutava l’amputazione della gamba (bisogno reale): preferiva morire piuttosto che perdere il controllo su di sé (terrore della dipendenza) e viveva i curanti come persecutori (difesa schizoparanoide.)
Paziente che idealizzava il chirurgo che con sette operazioni aveva cercato di mantenergliela in vita.
Curante “compulsivo” (anche come es. di falso Sé).
Divisioni nello staff medico.
Identificazioni proiettive nei curanti.
L’identificazione proiettiva è presente soprattutto nei pazienti violenti a loro volta abusati nell’infanzia: la vittima diviene l’aspetto vulnerabile odiato dei suoi genitori, che deve essere controllato e messo in riga.

I sentimenti distruttivi sono stati soppressi, “disconnessi” /dissociati (come bambino evitante per rimanere vicino alla figura d’attaccamento). Possono poi essere proiettati e poi attaccati all’altro (difesa schizoparanoide) oppure ci si può disconnettere dalla realtà del passato per ricrearla nell’immagine del mondo interno di persecuzione paranoica (psicosi).

Scissione, negazione, proiezione, identificazione proiettiva sono evidenti soprattutto negli episodi psicotici. “Incapsulazione” (Hopper): l’oggetto perduto o abbandonato è introiettato e fuso con il Sé per produrre un “corpo estraneo psichico” incapsulato e scisso.

Esempio del paziente psicotico→bisogno di essere importante per qualcuno.

Pensiero magico, idee ossessive e rituali→magico controllo che protegge dagli indicibili terrori della morte psichica.

I ricordi dolorosi associati ai sentimenti distruttivi rimangono inconsci finché si riesce a mantenere la scissione. In certe condizioni (es. forte stress) le difese crollano e compaiono gli agiti violenti oppure i sentimenti distruttivi sono espressi indirettamente tramite lo spostamento, su un oggetto approvato culturalmente.

Due sono dunque le dimensioni implicate nella violenza umana: la prima è il Sé, che deriva da una matrice di relazioni precoci di attaccamento interiorizzate, sostenute da potenti meccanismi di difesa, tutti comunemente usati per affrontare il trauma; la seconda comprende le basi neurofisiologiche del sistema d’attaccamento e il loro sconvolgimento profondo.

LA PSICOLOGIA DEL TRAUMA

Nella seconda parte l’Autrice mette a fuoco gli effetti del trauma su entrambi i sessi e le diverse età.

Il primo capitolo (IX) si occupa dell’abuso nell’infanzia partendo dal racconto del caso di Rachel che dall’età di 6 anni era stata abusata sessualmente dal padre (tra i sintomi anche la bulimia).

Vengono descritti alcuni meccanismi, come il desiderio incontenibile di fusione con l’altro (tipico delle relazioni perverse), letto come una difesa dal terrore di ritrovarsi annientate e inermi. Ciò si può vedere nella disperata ed eccessiva dipendenza dal terapeuta idealizzato. La presenza di una figura d’attaccamento affidabile è indispensabile per potersi confrontare con sentimenti e ricordi dolorosi e minacciosi, ma se nella realtà interna non esiste alcun oggetto buono, l’oggetto disponibile viene idealizzato e reso speciale, perciò la relazione di fiducia rimane fragilissima e precaria perché mantenuta a spese dell’aggressività che il paziente deve reprimere e scindere.

Così può accadere che l’abuso sia “risperimentato” nella relazione terapeutica che assume le caratteristiche di una relazione perversa.

Perversione nella relazione d’attaccamento→sono presenti desideri di disumanizzare l’oggetto, di impadronirsi completamente e di fondersi con l’altro. Se sessualizzata (come avviene nelle vittime di abuso) assume la “forma erotica dell’odio”.

Nella relazione d’attaccamento il risultato dell’abuso è una distorsione della relazione tra il Sé e l’altro. Il Sé è debole con scarsa autostima e si sente costretto a controllare e usare l’altro per sopravvivere; l’altro diventa un oggetto disumanizzato al servizio del Sé patologico. Nel caso dell’abuso sessuale il danno è più grave: tutte le relazioni sono sessualizzate.

Qualunque sia il trauma nella perversione l’ostilità prende la forma di una fantasia di vendetta, “celata nelle azioni della perversione e serve per convertire il trauma dell’infanzia nel trionfo dell’adulto”.

Comportamento autodistruttivo (es. tentati suicidi, tagli) ed esplosioni di rabbia incontrollabile, da un punto di vista psicodinamico possiamo descriverli come “identificazione con l’aggressore”, ma c’è anche un fenomeno psicobiologico: ripetizione del trauma e rilascio di endorfine che calmano.

Il cap. XII si occupa del rapporto tra culture e violenza.

Prevalenza del trauma psicologico

La terza parte vuole collegare le origini traumatiche della violenza alle esigenze della cultura occidentale. Vengono affrontati i seguenti temi:

Cultura e disumanizzazione dell’altro: differenze e conflitto sessuale; sfruttamento dei bambini, razzismo
Origini traumatiche della violenza legittima: stili di allevamento e atteggiamenti, perversione nella relazione d’aiuto.
Relazione tra amore e odio, sistemi d’idee e mantenimento del Sé.
Interessante è il cap. XIII dove viene affrontato più in dettaglio il tema della perversione.

L’Autrice si rifà a Stoller per il quale la perversione nei maschi è “quella forma di separazione che è l’uccisione della madre”: “Per liberarsi da quel primo oggetto, la madre, e per affermare la propria identità è necessario poter costruire una barriera che consenta di non soccombere all’impulso di fondersi con lei”. Quest’aspetto della struttura caratteriale può essere sostenuto da fantasie di una madre malvagia.

Perciò deve essere disumanizzata. Una simile scissione permette al bambino di aggrapparsi a una visione idealizzata della madre e delle donne.

BIBLIOGRAFIA:

De Zulueta Felicity (2009). Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività. Editore Cortina Raffaello (collana Psicologia clinica e psicoterapia), Milano

PUBBLICATO da Dott.ssa Rotolo su http://rivista.artiterapie-italia.it/settembre-i/389-dal-dolore-alla-violenza,-le-origini-traumatiche-dell-aggressivit%C3%A0.htm
immagine: RED NOISE (L’ultimo ruggito di Cecil)
Olio e applicazioni di smalto acrilico su tela – cm 50 X 60 Davide Pavlidis

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