Renata Gaddini
Quelli di noi che ritengono che Winnicott abbia contribuito in maniera rilevante alle teorie psicoanalitiche con il suo lavoro clinico, e che il lavoro clinico sia fonte primaria di ogni costruzione teorica, furono assai lieti di vedere tributare grandi onori a Winnicott in una occasione di grande rilievo quale fu, per l’intero mondo psicoanalitico, il primo congresso internazionale di Psicoanalisi fuori di Europa e, per l’appunto, negli Stati Uniti d’America.
Le parole con cui la Dott.ssa Greenacre ha introdotto il simposio a lui dedicato mi sembrano significative. Avendo detto che essa “aveva ricevuto molti stimoli da lui in termini di contenuto clinico”, ella parlò del lavoro di Winnicott come di una sorta di minuetto fra clinico e teorico. Il materiale clinico, disse, è la sostanza concreta del nostro lavoro, e la teoria fornisce le modalità per organizzarne la comprensione e promuovere ulteriori osservazioni. Ma se queste teorie diventano troppo ritualizzate e prese come dati di fatto, esse rischiano di trasformarsi in difese troppo forti – o paralizzano l’individuo quasi fino al suo annullamento, oppure si disintegrano e vengono abbandonate. E concluse: “Il peggior destino è il rigido eccesso di purificazione della teoria”.
Sento che nessuna parola potrebbe essere più appropriata per Winnicott. Nonostante i suoi sforzi di non essere categorico – non voleva davvero che le sue teorie diventassero ritualizzate – e di rivedere di continuo le sue formulazioni, man mano che il materiale clinico gli diventava più chiaro, è noto che non poche sono state le critiche che gli sono state rivolte sul suo modo di concettualizzare la ricerca, da alcuni definito addirittura come nebuloso e contraddittorio
Scrive Winnicott: “Il bambino che ha la fortuna d’una madre che sopravvive, una madre che sa riconoscere un gesto di offerta quando questo avviene, è ora in grado di fare qualcosa nei confronti di quel buco, il buco nel seno e nel corpo scavato con l’immaginazione nel momento istintuale originario. E’ qui che intervengono la riparazione e la reintegrazione, parole che significano tanto se usate nella situazione opportuna, ma che possono facilmente diventare dei cliché se usate in modo vago ed inesatto. Il gesto di offerta può colmare il buco se la madre sostiene il suo ruolo”. (Winnicott 1954-55, pag. 322).
Gli oggetti e i fenomeni transizionali sono vicini a questa riparazione. E’ il modo in cui il bambino, che sta diventando una persona distinta e separata (che è ormai nella fase di separazione-individuazione, direbbe la Mahler), evoca la ri-unione con la madre, dopo la separazione della nascita e del divezzamento.
Mentre studiavo il modo in cui si formano e si perdono i rapporti e, particolarmente, mentre studiavo l’uso di un oggetto transizionale come ponte tra me e non-me in bambini di tre diversi gruppi sociali, mi sono trovata dinanzi a ciò che allora chiamai “i precursori dell’oggetto transizionale”. Avvertii subito il bisogno di distinguere gli uni dagli altri, essendo del tutto diversi gli oggetti transizionali dai loro precursori sia come origine che come significato. Mentre l’oggetto transizionale è, per Winnicott, il simbolo della riunione dopo la separazione, ed implica uno spazio potenziale che nasce dall’esperienza e che porta alla fiducia, i precursori, sia quelli intra-orali che quelli basati su sensazioni epidermiche, stanno per il capezzolo, e il loro significato è di stabilire una continuità. Non vi è nulla di simbolico nel precursore. Non è separato dal corpo del bambino (come, per esempio, il suo dito) e neppure è creato dal bambino, come il succhiotto: gli viene messo in bocca dalla madre che vuole il suo bambino quieto; e il bambino, in questa situazione, non ha alternative, se non essere quieto.
Il valore dei precursori è dominante nello studio dei primi stadi dello sviluppo perché, essendo essi così precoci, ci permettono di capire le vicissitudini più significative dell’iniziale senso dell’essere.
Definizione e descrizione
Abbiamo indicato come precursori (degli oggetti transizionali) (Gaddini R. e Gaddini E., 1970; Gaddini R., 1978) quelle cose che, mentre hanno la capacità di consolare il bambino, non sono né separate dal bambino (per esempio, il dito) né scoperte o “inventate” da lui (per esempio, il succhiotto, che gli viene messo in bocca dalla madre per tenerlo quieto). I precursori vengono provveduti dalla madre o sono parte del corpo del bambino oppure della madre.
Oltre alla lingua e al labbro[2] o al dito, i precursori degli oggetti transizionali sono: 1) il succhiotto, 2) il biberon, usato come succhiotto, 3) il polso o il pugnetto del bambino, 4) il polso della madre, 5) il dorso della mano del bambino, 6) il dorso della mano della madre, 7) i capelli del bambino e quelli della madre, le orecchie, i nei della madre o del bambino che possono essere toccati per produrre sensazioni tattili in associazione con il succhiare o con altre azioni combinate. Ciò che di solito accade con i succhiotti, da Winnicott indicati scherzosamente “passifiers”, invece che “pacifiers” (Winnicott D.W. 1968) (cioè passivizzanti invece che pacificanti), è che la madri li “schiaffano” (shove) in bocca al bambino in modo tale che il bambino non ha alternativa se non quella di quietarsi. “Ciò che è completamente assente nella tecnica del succhiotto e il cercare del bambino, il suo muovere verso qualcosa… In altre parole non viene dato nessun credito alla capacità creativa del bambino, che si manifesta in termini, per esempio, di una mano che può raggiungere un oggetto, o di una bocca che può andare verso un oggetto con la saliva”. (Winnicott, 1968; Gaddini R., 1970).
Sarebbe scorretto designare la mano di una madre o di una nonna, un suo orecchio, i suoi capelli, un neo (oppure susseguenti sostituti, quali appendici del corpo di un bambino) come oggetti transizionali. Non sembrano avere il valore talismanico, esclusivo, tipico degli oggetti transizionali. Winnicott distingue esplicitamente tra i due: “Beato è il bambino che usa questo oggetto (oggetto transizionale) e non il corpo della madre stessa, oppure il lobo del suo orecchio, o i capelli” (Winnicott, 1965).
Come si è detto, gli oggetti e i fenomeni transizionali sono basicamente un simbolo di unione (unione dopo la separazione) con la madre. La particolarità essenziale dell’oggetto transizionale è il suo legame con l’oggetto assente. Nel discutere l’ambiguità della transizionalità, e il limite sfumato tra la soggettività e la oggettività Winnicott, pur non citando Hegel specificamente, ci permette di considerare lo spazio potenziale come un processo dialettico che genera significati simbolici e la soggettività. “E’ soltanto sulla base di questo simbolismo di unione che l’oggetto o il fenomeno può essere utilizzato dalla madre che anela di essere di nuovo libera” (Winnicott, 1968).
Come abbiamo appreso da Winnicott (1953), le prime determinanti degli oggetti transizionali e dei fenomeni transizionali, sono cure materne adeguate e la perdita di queste, che non sia stata forzata troppo precocemente o troppo bruscamente, rispetto allo “stadio del preoccuparsi” (Winnicott, 1955).[3]
Un seno assente e una bocca vuota possono essere fronteggiati nei primi mesi con i precursori. I bambini autistici non sono in grado di colmare l’assenza in questo modo, perché non succhiano o succhiano poco.[4]
Classificazione dei precursori
I precursori (dell’oggetto transizionale) hanno origine in base a sensazioni connesse con il seno o, i più precoci, a sensazioni capezzolo-simili.
Sulla base della nostra ricerca abbiamo fatto il tentativo di differenziare due categorie di precursori:
1. Il precursore che va in bocca (intra-orale)
Questo è il precursore di base che varrà a provvedere la sensazione primaria di sé e, più avanti, la sensazione di integrità somatica. Una improvvisa perdita o rimozione di questo precursore può determinare le più gravi reazioni e sintomi anche gravi. E’ stato più volte osservato che questa perdita è alla base di angosce di non integrazione (Gaddini E., 1982). Il feticismo infantile, ad esempio, può avere origine da questa precoce angoscia di non-integrazione e di mutilazione. Quindi la patologia del precursore, soprattutto del precursore intraorale (dentro la bocca) è assai più grave della patologia dell’oggetto transizionale, in quanto ha a che fare con l’interezza del senso di sé, mentre la patologia dell’oggetto transizionale ha a che fare con un legame tra un sé che, bene o male, si era già costituito, e il mondo esterno.
Specie i “consolatori” orali sono sempre stati studiati in psicoanalisi, nell’ambito della sessualità orale.[5] La nostra tesi è, tuttavia, che originariamente succhiare non voglia dire mettere dentro (anche il feto può “succhiare” nell’utero) ma piuttosto fare contatto, essere tutt’uno con. La suzione non raggiunge sempre un acme di soddisfazione, specie se si tratta di succhiotti e tettarelle (Greenacre, 1954). A differenza di quanto avviene per il succhiare al seno, con le tettarelle il ritmo è reiterato e stereotipo in luogo di quello orgiastico.[6]
2. Il precursore di contatto (epidermico) e di sensazioni tattili
Questa categoria di precursori sembra comparire in qualche modo più tardi rispetto alla varietà del precursore intraorale. Nei nostri studi esso è risultato essere strettamente connesso con i primi mesi di vita. Il precursore tattile non compare senza che vi sia stato in precedenza il precursore in bocca. Il precursore tattile si basa sulle sensazioni epidermiche vissute dal bambino nell’ambito del seno, per cui lo vediamo come una espressione della funzione contenitiva materna.
Chiaramente, la copertina che avvolge il bambino nei primi giorni e gli accarezza la guancia o il labbro mentre succhia, è per lui parte integrante delle sensazioni tattili che riceve dal corpo della madre e dall’intera situazione contenitiva.
In questa prima età le sensazioni tendono a essere massive, non distinte né affinate, per cui il bambino non è in grado di distinguere la sensazione che gli deriva da una parte del corpo della madre da quella che è separata dal corpo della madre, e non sa neppure distinguere se si tratta di qualcosa di animato o inanimato. Non può “sapere” che una sensazione tattile varrà a creare, da parte sua, il suo precursore tattile, o quale precursore diventerà, in seguito oggetto transizionale. Tutto questo gli è ignoto.
Il precursore di contatto cutaneo e di sensazioni epidermiche non è, come i precursori che vanno in bocca, cioè, una cosa diversa dall’oggetto transizionale. Esso è, in effetti, l’oggetto transizionale nel momento in cui non vi è ancora separatezza e individuazione, per via del fatto che non c’è stata ancora separazione, e quindi perdita, e non ha ancora avuto origine quello spazio potenziale che nasce dal distacco e che serve a riparare e a creare. A volte è difficile differenziare il precursore tattile dall’oggetto transizionale in puri termini descrittivi. Dobbiamo essere in grado di capire ciò che significa ciascuno di essi per il bambino. Nel corso dello sviluppo il precursore in bocca a poco a poco viene perduto e il precursore tattile può diventare l’oggetto transizionale. L’oggetto transizionale origina dal precursore tattile in quei casi in cui quest’ultimo non appartiene né al corpo della madre e neppure a quello del bambino ma appartiene all’ambito della madre e alla sua funzione contenitiva. L’oggetto transizionale è di solito adottato dal bambino durante la seconda parte del primo anno di vita; acquisisce valore per lui come una realtà da lui creata e come un consolatore indipendente. Con il divezzamento (psicologico) il processo di separazione ha inizio e i legami simbiotici con la madre si attenuano. Oggetti che sono separati da entrambi (sia dal corpo della madre che dal corpo del bambino) diventano oggetto di investimento, mentre il precursore intraorale perde di valore ed è gradualmente abbandonato. L’oggetto transizionale diventa allora il vero talismano.
Abbiamo osservato che il processo di attaccamento all’oggetto transizionale (rappresentazione simbolica della riunione con la madre perduta) ha luogo quando il bambino si sente abbandonato o solo nello spazio/tempo lasciati temporaneamente vuoti tra il suo sé in corso di sviluppo e la madre. Ben presto l’oggetto transizionale gli servirà come difesa assai potente contro l’angoscia che gli deriva dalla minaccia di separazione e d’abbandono, angoscia che nasce particolarmente in rapporto con il distacco dalla realtà e con la separazione dall’oggetto, nel momento in cui egli sta per addormentarsi.
LO SPAZIO TRA SE’ E LA MADRE: LA FORMAZIONE DELL’OGGETTO
La teoria della libido[7] ci permette di capire alcuni aspetti dell’investimento della madre nel corpo del bambino e delle sue funzioni corporee, e, reciprocamente, dell’investimento del bambino nel corpo della madre e nell’ambito materno.
Ci permette anche di capire aspetti della natura del precursore dell’oggetto transizionale e di ciò che è stato chiamato feticcio. Entrambi, precursori e feticcio, non implicano la formazione di una rappresentazione di oggetto. In contrasto con ciò che l’oggetto transizionale diventerà, l’ambito contenitivo materno non viene rappresentato né dal feticcio né dal precursore; nessuno dei due può fornire un’equivalenza né compensare per la perdita totale.
Il precursore viene usato nel momento in cui soggetto e oggetto non sono ancora distinti (siamo allo stadio dell’oggetto soggettivo) e provvede alla continuità e alla completezza che è andata perduta col nascere. Questa è la ragione per cui noi ci riferiamo ad esso come “precursore” non importa se questo è parte del corpo, o della madre o del bambino, o se si tratta invece di un succhiotto che viene messo in bocca a un bambino che piange, per farlo star buono.
Ben poche introiezioni o elaborazioni hanno luogo nel rapporto con questi precursori dal momento che essi appartengono allo stadio della formazione dell’oggetto. Attraverso gli anni io mi trovo a guardare al capezzolo, assai più che non al seno nel suo insieme, come all’elemento privilegiato del bambino in termini di completamento di continuità e di senso di essere un’unità. Il seno in questo senso è il tutto per la parte, il massivo per lo specifico, un fenomeno non insolito nei primissimi tempi della vita, un tempo in cui percezione e differenziazione sensoriale non sono ancora state acquisite. I feticci appartengono anch’essi allo stadio della formazione dell’oggetto, e anch’essi compensano il bambino in termini di completamento e di continuità. I feticci differiscono grandemente dai precursori, tuttavia, rispetto al momento della loro comparsa: la prima infanzia nel caso dei precursori, la seconda parte del secondo anno nel caso del feticcio infantile. Quest’ultimo (seconda parte del secondo anno) è un momento, come dice Greenacre (1969), il cui il bambino va acquisendo consapevolezza cognitiva dei propri genitali. Inoltre il mondo esterno, a questa età, è pieno di minacce, dal suo punto di vista. Le pulsioni non sono più contenute nelle braccia e nell’ambito della madre. Pressioni dal di dentro, emergenze istintuali, contribuiscono connotazioni aggressive al mondo esterno attraverso meccanismi di proiezione, particolarmente allorché eventi specifici occorrono in realtà, quali la nascita di un fratello, una malattia, un’ospedalizzazione, eventi sadici, cambiamenti di casa, ecc.
IL DRAMMA DELLA SEPARAZIONE
Acquisire una identità
Questo è il tempo in cui il bambino vuole essere sicuro che la madre sopravviva, mentre lui va esplorando fuori del suo ambito, e va cercando di esistere come persona, al di fuori e anche contro di lei. Dovessi dire in una frase breve qual è, per me, l’essenza del dramma umano del crescere direi che è l’esperienza di queste paradossalmente opposte tendenze che coesistono nella seconda metà del primo anno, mentre il bambino si avvia verso l’autonomia.
Credo che gran parte delle nostre difficoltà a concettualizzare su questa tema derivi, anche per noi analisti, dal nostro evitare di ammettere la realtà che processi paradossalmente opposti sono ubiquitari, e che il processo creativo di costruire un nuovo essere è contenuto senza fine tra questi due poli del paradosso: rimanere uniti o separarsi. E’ cruciale, per potere ammettere tale processo creativo, la capacità di tollerare l’incerto e le situazioni intermedie. Winnicott, in questo senso, è stato maestro.
Una buona illustrazione del dilemma cui va incontro il bambino allorché continua a cercare di assicurarsi la madre mentre egli già comincia ad asserirsi come separato e distinto da lei, la si può vedere nella Madonna del Latte del Correggio, un quadro che si trova attualmente alla Galleria Nazionale di Budapest. Nel marzo del 1787 Goethe ebbe modo di vederlo al Museo Archeologico di Napoli, dove si trovava allora. Ne fu vivamente colpito. Commentando sulla bellezza del quadro, che egli paragona agli Sponsali di Santa Caterina, anch’esso di mano del Correggio, Goethe coglie nel bambino che emerge in piena luce, in primo piano, l’elemento di unione e di possesso della madre – la mano posata con fiducia sul petto – e nella mano protesa a prendere i frutti l’elemento di separazione e di ricerca: così scrive Goethe nel suo Viaggio in Italia, in data 22 marzo: “Abbiamo veduto un quadro del Correggio, in vendita, non perfettamente conservato, ma che pur mantiene indelebile l’impronta più felice della grazia. Rappresenta una Madonna col bambino nel momento in cui questi è esitante fra il seno materno e alcune pere, che gli porge un angioletto: un Cristo svezzato insomma” (Goethe, 1817).
Questi stessi elementi di attaccamento e di dipendenza da un lato e di separazione e di spinta a muovere verso il mondo esterno ed al rapporto di oggetto dall’altro presentati come due funzioni abbinate ed in conflitto tra loro, erano stati espressi in maniera emblematica da Hermann (1929, 1936) fin dal 1929. Lo cita Hartman nel suo saggio sulla “Metapsicologia della Schizofrenia”, comparso nel Psychoanalytic Study of the Child del ’53.
Si deve infatti considerare che, nel processo naturale di crescita, dare al bambino un succhiotto (o qualunque succedaneo del seno) è un atto seduttivo, in quanto allevia la tensione, senza tener conto che la frustrazione, che è ad esso connessa (specie allorché ha luogo dopo una adeguata soddisfazione dei bisogni) è un importante fattore di crescita. E’ una sorta di tradimento. La frustrazione promuove, infatti, nel bambino il passaggio dal bisogno al desiderio, dal processo primario pre-simbolico al processo secondario, che è ricco di rappresentazioni e di simboli. Il succhiotto, che seduttivamente la madre propina al bambino per “calmarlo”, allevia la tensione, ma non tiene conto della frustrazione che è ad essa connessa (Gaddini E., Gaddini R. 1994). Anche nel nostro lavoro clinico di analisti, come nel processo di crescita, sappiamo che è seduzione la situazione per cui lo spazio potenziale tra paziente e analista viene colmato da una relazione che contiene interventi manipolativi. E’ importante dare ampio spazio alla creazione del paziente, che è spesso riparazione e restaurazione.
Un riferimento al feticcio
A volte è il precursore più qualcos’altro, di solito un indumento della madre, oppure un suo piede, o una scarpa che si combinano nel tentativo del bambino di restituire un senso di completezza al suo sé e alla sua identità sessuale minacciata; ciò dà luogo al feticcio. Il feticcio infantile può valere a riempire un vuoto causato da una improvvisa perdita. Questa perdita ha a che fare con l’oggetto primario e specialmente con il capezzolo. Noi possiamo, pertanto nel caso del feticcio infantile, parafrasare l’affermazione di Freud che “il piede rappresenta il pene femminile, l’assenza del quale è profondamente vissuta”: nei bambini piccoli il piede o un indumento materno possono venire a rappresentare il capezzolo del seno, l’assenza del quale è profondamente vissuta. Il feticcio infantile rappresenta un oggetto parziale e non una funzione in rapporto ad una persona, pertanto non è come l’oggetto transizionale, che serve come simbolo. La proprietà di rappresentare una funzione in rapporto con una persona e di avere luogo nell’ambito di questa persona intera è in effetti tipico dell’oggetto transizionale, con il quale il bambino evoca la perduta unione con la madre.
Le seguenti illustrazioni cliniche sono buoni esempi di come la castrazione in termini di angoscia di perdita di sé (Gaddini E., 1981) sia fondamentale per il costituirsi del feticcio infantile.
Claudio aveva tre anni quando ha cominciato a fare uso delle calze della madre nei momenti in cui era depresso e in cui stava per addormentarsi. Mentre faceva ciò, si eccitava ed aveva un’erezione. Nei primi mesi di vita si era sempre succhiato le dita della mano sinistra per addormentarsi. In seguito aveva anche preso a stimolarsi ritmicamente il pollice della mano destra al punto di farlo sanguinare. La madre era allora intervenuta bendando il dito, con l’idea di proteggerlo da deformità. Nel momento in cui il dito fu bendato Claudio smise di tormentarlo e smise anche di succhiarsi le altre due dita. Fu allora che incominciò ad usare la calze della madre.
Enrico, figlio unico di giovani genitori, fu alimentato a orario molto stretto (pochi giorni al seno) con latte artificiale e gli fu dato un succhiotto fin dalle prime settimane di vita, succhiotto a cui egli diventò molto attaccato. Quando aveva all’incirca 3 anni, la madre preoccupata circa le possibili conseguenze che questo succhiotto avrebbe potuto avere sulla forma del palato e sui denti, glielo tolse e gli disse che era stato “buttato a mare”. Enrico pianse molto e per giorni ebbe difficoltà ad addormentarsi; finalmente sembrò che si fosse rassegnato. In quei giorni quando tentava di adattarsi alla perdita fu notato che si andava interessando al piede delle donne, che toccava e abbracciava e stringeva con interesse andando via via eccitandosi e raggiungendo un’erezione. Fu la madre che richiamò la mia attenzione sulla stretta connessione in termini di tempo che era esistita tra il momento in cui il succhiotto era stato allontanato e il suo cominciare a cercare il piede delle donne (mai degli uomini).
L’osservazione di un certo numero di casi come questi cui abbiamo accennato, casi in cui l’allontanamento di un sostituto del capezzolo (il precursore che va-in-bocca o intraorale) è stato seguito da un attaccamento al feticcio infantile, mi ha suggerito l’idea che quest’ultimo, in certe circostanze, è una derivazione diretta della perdita del seno e specificamente del capezzolo. Greenacre (1968) si avvicina a questa idea quando scrive:
“Mentre la funzione del feticcio si limita alla preoccupazione relativa ai genitali, essa ha anche un rapporto con la madre e qualche volta ci sono anche indicazioni di memorie del seno. Ma queste memorie sembrano essersi formate per lo più in un periodo molto precoce di confusione tra seno e pene”.
Da ciò deriva il fatto che:
“mentre il feticcio è necessario al feticista adulto per completare l’atto sessuale, è piuttosto la necessità narcisistica che non l’espressione di amore e di tenerezza che viene soddisfatta (nell’atto feticistico)”. (Greenacre P., 1969).
Fa dunque notare questo autore che anche nel feticcio vi sono memorie del seno. Nel feticcio, tuttavia, invece della tenerezza che è propria dell’oggetto transizionale, vi è rabbia, che deriva dalla paura di castrazione. I feticisti non sono, in genere, capaci di tenerezza. Possono avere questo sentimento al di fuori del rapporto sessuale, che è invece per loro una affermazione narcisistica di adeguatezza.
OGGETTI E FENOMENI TRANSIZIONALI E I LORO PRECURSORI: SIMBOLO O EQUAZIONE SIMBOLICA?
Vorrei menzionare qui un problema che è stato molto dibattuto in incontri internazionali e nella letteratura. Vale a dire: che cosa rappresentano gli oggetti transizionali e i loro precursori in termini simbolici?
Winnicott non ha dubbi. L’oggetto transizionale è per il bambino il simbolo della riunione con la madre dopo la separazione alla nascita. Sta al posto di una unione perduta, ne assume le cariche e permette un disinvestimento dall’oggetto primario.
Egli non si pose però il problema del valore simbolico dei precursori, in quanto non faceva distinzione tra precursori e oggetti transizionali, pur mostrandosi sollevato quando io individuai il diverso significato degli uni rispetto agli altri (Winnicott D.W., 1974)
Ciò che egli sottolineava era l’importanza che ha, per un sano sviluppo, il potere accettare il simbolo invece che rimanere all’”oggetto” primario. “Una cosa” sta per l’altra – diceva, trattando dell’aggressività – e la conseguenza è un grande sollievo rispetto ai crudi e scomodi conflitti propri della nuda verità” (Winnicott, 1984; Trad. It., 1986).
Citando precedenti studi sulla simbolizzazione, sono state però sollevate obbiezioni al punto di vista di Winnicott. Jones (1916) nel suo “Teoria sul simbolismo” differenzia il simbolismo inconscio da altre forme di “rappresentazione indiretta” affermando che “un simbolo rappresenta ciò che è stato rimosso dalla coscienza; soltanto ciò che è stato rimosso ha bisogno di essere simbolizzato”. In una tavola rotonda sull’argomento (New York, Congr. IPA ’79) Segal, citando Jones, tendeva a negare valore simbolico all’oggetto transizionale. L’affermazione di Jones tuttavia che i simboli si formino quando non c’è sublimazione, ha sollevato discordia. Klein (1948) non era d’accordo con questa sua veduta del rapporto negativo esistente tra simbolizzazione e sublimazione. Essa cercò di mostrare che il gioco dei bambini, che è una attività certamente sublimata, è un’espressione simbolica di angosce e desideri.
Segal considera il simbolizzare come un rapporto a tre, vale a dire un rapporto tra la cosa simbolizzata, la cosa che funziona come un simbolo e una persona per cui l’una cosa rappresenta l’altra. Nell’equazione simbolica il sostituto simbolico viene invece vissuto come se fosse l’oggetto originario. L’equazione simbolica viene usata per negare l’assenza dell’oggetto ideale, o per controllare un oggetto persecutorio. Appartiene ai primissimi stadi dello sviluppo.
Il simbolo propriamente detto, che serve a sublimare e a promuovere lo sviluppo dell’Io, viene vissuto come se rappresentasse l’oggetto: le sue caratteristiche vengono riconosciute, rispettate ed usate.
Il valore simbolico dell’oggetto transizionale procede dallo stato che Segal (1957) indica “equazione simbolica” (che per me è il momento dei precursori, allorché il simbolo e la cosa simbolizzata non si differenziano l’uno dall’altra) alla vera simbolizzazione, momento in cui la rappresentazione astratta delle funzioni dell’oggetto sono disponibili per l’identificazione. Nel suo lavoro del ’57 questo stesso autore, senza peraltro riferirsi specificamente all’oggetto transizionale, concludeva che “ogni normale identificazione con un oggetto o con le sue qualità implica perdita, e il lavoro di riparazione”.[8]
Per me l’oggetto transizionale implica, appunto perdita e lavoro di riparazione. Non è così per il precursore, che nega semplicemente l’assenza. Mentre l’oggetto transizionale deve essere visto come un gradino intermedio tra pre-oggetto (da cui il bambino trae conforto e soddisfazione del bisogno) e oggetto, o come un ponte creato dal bambino tra Sé e mondo esterno, che rappresenta il desiderio, di cui egli può fare uso per crescere (Winnicott, 1969), il precursore è ancora pre-oggetto, è ancora tutto Sé, quel Sé del tempo in cui oggetto e soggetto sono tutt’uno, e l’individuo vive in base a sensazioni.[9]
Mi chiedo se il fatto che il concetto di sé viene ignorato da alcuni autori, possa essere la ragione delle divergenze sul valore simbolico dell’oggetto transizionale, ed anche sul non differenziare, secondo me erroneamente, l’oggetto transizionale, dove è in causa l’identificazione, dai precursori, dove si tratta invece di imitazione (Gaddini E., 1969).
Com’è noto, il Sé, per Winnicott (1971) è un nucleo centrale che soggiace allo sviluppo della personalità.Il concetto è molto vicino a ciò che Gaddini indica come organizzazione mentale di base (Gaddini E., 1981) e Bion come protomentale, per quanto il protomentale di Bion sia ancora prima del Sé. Il Sé, in realtà, è il risultato delle potenzialità funzionali innate del bambino e della madre che contiene (e sostiene) nei primi mesi, il che comprende la sua capacità di adattamento attivo ai bisogni del bambino.
Nelle parole di Winnicott (1970):
“Per me il sé che non è l’io è la persona che è me, che è soltanto me, che ha una totalità basata sulle operazioni del processo maturativo, facilitata come deve accadere (principalmente all’inizio) dall’ambiente umano che contiene e che presenta gli oggetti e che facilita in una maniera viva. Il sé si trova naturalmente nel corpo, ma può in certe circostanze diventare dissociato dal corpo, oppure il corpo può dissociarsi dal sé. Il sé essenzialmente si riconosce negli occhi, nell’espressione facciale della madre e nello specchio che può in seguito trovarsi a rappresentare la faccia della madre. In seguito il sé arriva ad un rapporto significativo tra il bambino e l’insieme di tutta l’identificazione che (dopo che hanno avuto luogo in maniera sufficiente incorporazioni e introiezioni delle rappresentazioni mentali) vanno organizzandosi in forma di una realtà psichica interna vivente. Il rapporto tra il maschio e la femmina con la loro propria organizzazione psichica interna diventa rinforzato o modificato secondo le aspettative che sono espresse dal padre e dalla madre e da coloro che sono diventati significativi della vita (esterna) dell’individuo. E’ il sé e la vita del sé che, soli, danno il senso dell’agire e del vivere dal punto di vista dell’individuo che è cresciuto fino ad allora e che continua a crescere dalla condizione di dipendenza e di immaturità verso una condizione di indipendenza e di capacità di identificarsi con oggetti di amore maturi senza perdita dell’identità individuale”.
E, più avanti:
“Io penso che il suo usare la parola le moi corporel possa essere necessario, ma sarebbe preferibile lasciare che il sé non si trovi sempre a sottolineare il corpo escludendo un sé più astratto che certamente appartiene all’idea di un cervello sano che funziona in una maniera sana”.[10]
Ai precursori, che appartengono al periodo dell’oggetto soggettivo, allorché individuazione e separatezza non sono ancora stati raggiunti, io pure dò il significato di equazione simbolica. Del tutto differente è il senso dell’oggetto transizionale che rappresenta, in realtà, per il bambino – persona, ora intera e separata – la riunione con la madre (oggetto) perduta.
Per il bambino, creare un oggetto transizionale significa essersi mosso passo passo dallo stadio puramente sensoriale dei primi mesi alle complesse operazioni mentali dei mesi successivi. Non vi può essere un oggetto transizionale se non ha avuto modo di formarsi un sé, in quanto l’oggetto transizionale è una creazione del sé. E’ anche un indicatore del funzionamento mentale, in termini di relazione di un oggetto: è un indicatore dal punto di vista maturativo, in quanto deve esserci prima un sé per potere avere l’oggetto transizionale, essendo questo un ponte tra il sé e il non sé. Ed è un indicatore in termini psicologici, perché deve essere esistita la possibilità di formare una relazione di oggetto perché ci sia un oggetto transizionale.
Prendiamo, al contrario, un bambino che è rimasto intrappolato nel suo precursore intraorale di cui, ancor più che per l’oggetto transizionale, è nota la immutabilità. Questa tende a eguagliare la battaglia che fa il bambino piccolo nel crescere, nei confronti di ciò che è noto, di ciò che non è noto, di ciò che non è conoscibile. Può questo precursore essere un dito, un succhiotto, un labbro o la lingua o simili. E’ attraverso questo precursore che il bambino si consola quando gli viene a mancare il seno, come se queste sensazioni capezzolo-simili possano saturare una valenza che è rimasta beante alla nascita. Lo stadio di sviluppo che indica il precursore è molto più precoce, in termini maturativi, è uno stadio in cui il bambino è ancora coinvolto con l’interezza del suo me (o sé), e in cui non c’è ancora un ponte tra me e non-me, che significa entrare in rapporto.
Succhiare un dito, o un succhiotto, non ha a che fare, per il bambino, col mettere dentro, ma piuttosto col fare contatto, con l’essere tutt’uno-con. E’ un problema di sensorialità e di continuità, che ha inizio e ha luogo assai prima che siano maturate le percezioni, non già un problema di erotismo orale e di sessualità. Non è, in ogni caso, un problema di relazione di oggetto.
APPENDICE:
Cara Renata,
………………….
Mi sembra che la formulazione della tua immensa fatica nel campo dell’osservazione diretta vada sviluppandosi bene. Ne sono molto lieto. Sarà bello per me di vedere uscire questo volume sui precursori, con solo piccole tracce di mio. E’ come passare la mano e sentirsi sollevati.
………………….
Con affetto, a tutti voi
Donald
BIBLIOGRAFIA
Bion W. (1962) A theory of thinking : Int. J. Psychoanalysis, 43
Bion W. (1962) Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma, 1972
Freud S. (1915) Die Verdrangung. G.W., 10, 248-262. Fischer, Frankfurt 1981. Trad. It. La Rimozione. O.S.F., 8, 37-48
Gaddini E. (1969) On imitation. Int. J. Psychoanalysis, 50, 475-484
Gaddini E. (1981) Note sul problema mente-corpo. Rivista di Psicoanalisi XXVIII, 1, 3-29
Gaddini E. (1982) Fantasie difensive precoci e processo psicoanalitico. Rivista di Psicoanalisi, XXVIII, 1, 1-14
Gaddini De Benedetti R. (in collaborazione con Gaddini E.) (1970) Transitional Objects and the Process of Individuation: a study in three different social groups. J. Am. Acad. Child Psychiatry, 9, 347-365
Gaddini De Benedetti R. (1975) The concept of Transitional Object. J. Amer. Acad.
Child Psychiatry, 14, 731-736
Gaddini De Benedetti R. (1978) Transitional Object Origin and the Psychosomatic Symptom.
In Between Reality and Fantasy. Edrs. Barkin and Groelnik. Aronson Publ. New York
Goethe W. (1817) Viaggio in Italia. A cura di L. Mazzucchetti. Sansoni, Firenze, 1963
Greenacre P. (1954) Problems of infantile Neurosis. Psychoan. Study Child. IX, 18-71
Greenacre P. (1968) Perversions: General Considerations regarding their genetic and dynamic background. Psychoan. Study Child, XXIII, 47-62
Greenacre P. (1969) The fetish and the Transit. Object. Psychoan. Study Child, XXIV, 144-163
Hermann I. (1936) Sich anklammern-auf Suche gehen. Int. Ztschr. F. Psychoan., XXII
Innes Smith I. (1998) Espace potentiel et processus dialectique. Presentato a Madrid, Convegno su su Ferenczi, 19 Febbraio 1998
Isaacs Elmhirst S. (1980) Transitional Object in Transition. Int. J. Psych., 61
Jones E. (1916) The theory of symbolism. In Papers on Psychoanalysis, 2nd ed., Balliers Tindall and Cox, London. 1950
Klein M. (1930) The importance of Symbol formation in the development of the Ego. In The writings of M. Klein. Vol. 1. The Hogarth Press, London
Klein M. (1948) Contributions to Psychoanalysis 1921-1945. The Hogarth Press, London
Salomon J. (1962) The fixed idea as an internalized transitional object. Am J. Psychotherapy,
16, 632-644
Segal H. (1957) Notes on Symbol formation. . Int. J. Psychoan., 38, 391-97
Segal H. (1982) The work of Hannah Segal. Aronson , New York
Tustin F. (1981) Autistic States in Children. Rutledge & Kagan, London, Henley, New York
Winnicott D. W. (1941) The observation of infants in a set situation. In Collected papers
London, Tavistock, 1958. Trad. It. In Dalla Pediatria alla Psicoanalisi. Martinelli, Firenze, 1975
Winnicott D.W. (1945) Sogno, fantasia e vita reale. In Gioco e Realtà. Armando, Roma, 1974.
Tit. Orig. Playing & Reality. Tavistock Publ., London, 1971
Winnicott D. W. (1953) Transitional Objects and Transitional Phoenomena. Int. J. Psychoan.,
Vol. 34
Winnicott D. W. (1955) The depressive position in normal emotional development.
British J. Med. Psychol. XXVIII, 89-100
Winnicott D.W. (1965) The maturational process and the facilitating environment. The Hogarth
Press, London. Trad. It. Sviluppo affettivo e ambiente. Armando, 1970
Winnicott. D.W. (1964-70) Corrispondenza con R. Gaddini. Psychoanalysis and History Artesian
Books Ltd Teddington TNII OWE http://www.artesianbooks.co.uk
Winnicott D.W. (1969) The use of an object. Int. J. Psychoan., 50, 711-716 Trad. it.
L’uso di un oggetto. In Gioco e Realtà Ed. Armando, Roma, 1974, pag. 151
Winnicott D.W. (1971) Lettera a J. Kalmanovitch a Parigi, 19 gennaio, pubblicata in parte nella
introduzione a Fragment d’une analyse, Payot, Paris, 1975
Winnicott D.W. (1971) Playing and Reality, Tavistock Publ. London 1971. Trad. ital.
Gioco e Realtà, Ed. Armando, 1974, pag. 20
Winnicott D.W. (1978) Frammento di un’analisi. Il Pensiero Scientifico, Roma, 1981.
Ed. Orig. Fragment of an analysis. In Tactis and Technique in Psychoanalysis
P. Gioacchini, Ed. Science House Publ, 1972
Winnicott D.W. (1964) Roots of Aggression. In Deprivation and Delinquency. Tavistock,
London, 1984. Trad. It. Il bambino deprivato. Cortina, Milano, 1986
RIASSUNTO
SUL PROCESSO DI INDIVIDUAZIONE: I PRECURSORI DELL’OGGETTO E DEI FENOMENI TRANSIZIONALI
Renata Gaddini
Associazione Italiana di Psicoanalisi
Margaret Mahler ci ha aiutati a capire aspetti della separazione-individuazione in termini di fasi di sviluppo, compresa l’ambivalenza e la capacità di contrapporsi., Winnicott ci ha soprattutto aiutati a capire ciò che accade prima, e quali sono le condizioni che permettono di arrivare alla separazione-individuazione. Nelle sue vedute, a cui mi riferisco in questa presentazione, vi è uno stadio dello sviluppo in cui l’oggetto è, come in origine, esterno a Sé e, allo stesso tempo, parte di sé, allorché hanno luogo l’internalizzazione e l’identificazione. Le radici dell’internalizzazione e dell’identificazione si stabiliscono sulla base dei legami fisici del bambino con la madre nei primi tempi. Questi legami vengono provveduti dai processi precoci che costituiscono le cure prestate e sono queste cure che forniscono il modello per le esperienze successive che conducono all’individuazione. Il succhiare il seno deve essere visto come modello di base della riunione dopo la separazione alla nascita; attraverso questo succhiare il bambino ristabilisce la continuità. In assenza del seno, i sostituti del capezzolo vengono usati per soddisfare il bisogno che il bambino ha dei contatti, che significa continuità – il succhiare non nutritivo. I sostituti del capezzolo sono chiamati dall’autore precursori (O.P.) per significare che essi precedono la rappresentazione simbolica. Quando i legami concreti sono stati sottratti al bambino prima che egli sia capace di riconoscere la madre come separata da sé, uno sterile fantasticare ne prende il posto. Questo fantasticare, in genere, non favorisce lo sviluppo, ma conduce ad un ritiro generale nella fantasia, alle compulsioni, alla elaborazione di un compagno immaginario. Mentre esso può apparire come uno sviluppo precoce è, in verità, un ostacolo all’internalizzazione e all’introiezione. E si può avere assai di frequente in questi casi una distorsione del processo di individuazione. La funzione della realtà esterna, non adeguatamente elaborata viene allora assunta (o sopraffatta) da una realtà interna autogenerata che è il residuo dell’esperienza onnipotente vissuta nella fase dell’illusione di fusione precoce con la madre.
[1] The Fourth International Margareth S. Mahler Symposium – Padova, 16-18 Maggio 2003
[2] Tra i precursori, labbro, lingua e mucosa di rivestimento interno delle guance hanno un significato più “interno” e più autoctono che non il succhiotto e il dito, tant’è vero che difficilmente si trovano in bambini che non abbiano per lo meno note autistiche. Di recente ho osservato il succhiare la lingua, iniziato – dice la madre – “quando gli ho tolto il latte” (a sei mesi), in un ragazzo quindicenne di buona intelligenza, ma con disturbi nella simbolizzazione e nel rapporto.
[3] “Stage of concern” che, per Winnicott, voleva dire la posizione depressiva.
[4] Una possibile (costituzionale?) base biologica è stata suggerita da Tustin (Tustin, 1981) per questa inabilità a succhiare dei bambini autistici, forse dovuta, a suo avviso, a mollezza e a scarsa coordinazione dell’apparato muscolare. A me pare più possibile che la loro scarsa capacità di succhiare debba essere messa in conto della immaturità che è frequente appannaggio dei bambini autistici.
[5] Freud fa menzione, a proposito del caso di Dora e del suo sintomo compulsivo che riguardava la gola, del fatto che fino al 4° o 5° anno di vita si era succhiato il dito, e che ne era stata distolta bruscamente dal padre (Freud, 1901). In connessione con Dora, Freud ha menzionato anche un altro caso. Quello di una donna che non si era mai affrancata dalla sua abitudine di succhiare, che aveva ricordi di infanzia che risalivano, secondo lei, alla prima metà del 2° anno di vita. Sia Dora che questa donna avevano l’abitudine, insieme al succhiare, di tirare i lobi delle orecchie – la prima, i lobi delle orecchie del fratello, la seconda quelli di una “tata”. I dettagli della storia che Freud ci ha fornito, in entrambi i casi, indicano, a mio avviso, il significato che egli attribuiva al “succhiare gratificante” che si protrae al di là dell’allattamento. Ciò che Freud sottolinea, però, è l’equivalenza capezzolo-pene e vi include i sostituti del capezzolo, come il succhiare il dito e l’atto di succhiare e baciare, che si basano entrambi sul carattere erogeno della zona orale. Il bisogno di contatto, di riempire il (senso di) Sé che è a mio avviso alla base di queste pratiche, non è menzionato da Freud.
[6] Nello studio dei ritmi umani questo A. ha indicato la possibile organizzazione dell’individuo lungo due assi di vita, quello alimentare e quello sessuale. E’ probabile che il succhiare (nutritivo) al seno, che implicherà presto internalizzazione e introiezione, e quindi struttura dell’Io, possa essere visto come un naturale precursore (o “organizzatore”) sull’asse di vita relativo allo sviluppo sessuale. Diverso è invece il succhiare non nutritivo, e i precursori, che ne sono il tramite.
[7] La libido non è più vista oggi come una pulsione puramente sessuale, bensì come la totalità della relazione affettiva e sensoriale che inizia con il rapporto madre-bambino.
[8] Il suo attributo di amuleto psichico che dà protezione, impedendo però di apprendere dall’esperienza, spetta a qualcosa che non è ancora esterno al soggetto, non ancora quindi libero dalla sue proiezioni. Questo attributo è assai più proprio per il precursore che non per l’oggetto transizionale, che in parte è già esterno.
[9] Come osserva Isaacs Elmhirst (1980) lo studio che ha creato le basi per queste considerazioni è il lavoro di Winnicott (1941) su: “L’osservazione dei bambini in una situazione pre-fissata”. In questo lavoro, che è un esempio classico di come principi teorici possano essere usati nella ricerca clinica, e viceversa, Winnicott descrive la reazione di bambini lattanti ad una spatula posta sul tavolo, davanti a loro, in un ambulatorio pediatrico. La risposta del bambino si svolge in tre stadi: il primo è quello di avvicinamento interessato, ma sospettoso. Nel secondo, il bambino sente di avere la spatula in suo possesso, e di poterla asservire ai suoi desideri, come se fosse un’appendice di sé. Nel terso stadio, l’esercizio è quello di liberarsi della spatula. Vi sono, in queste sue osservazioni, le premesse a: L’uso di un oggetto (Winnicott, 1969).
[10] Lettera di Winnicott al suo traduttore francese (gennaio 1971) che gli aveva chiesto come tradurre la parola “sé”.